I rappresentanti del governo iraniano terranno colloqui di “alto livello” con le loro controparti di Francia, Regno Unito e Germania a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite questa settimana per cercare di arrestare la rapida escalation della crisi attorno alla questione del nucleare di Teheran. La notizia segue il voto di venerdì scorso al Consiglio di Sicurezza che reintroduce di fatto le sanzioni contro la Repubblica Islamica sospese un decennio fa con l’entrata in vigore dell’accordo di Vienna (JCPOA). A seguito di questa iniziativa, presa dai tre già citati governi europei parte dell’accordo (E3), l’Iran ha congelato ogni forma di collaborazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), con la quale aveva recentemente raggiunto un’intesa per rimettere in piedi il regime di sorveglianza boicottato dall’aggressione militare americano-israeliana dello scorso giugno. Anche se ci sarebbe in teoria ancora tempo per trovare una soluzione diplomatica che rimandi almeno la rottura tra Occidente e Iran, per quanto disponibile si mostri il governo di quest’ultimo paese, è molto improbabile che arriveranno risultati incoraggianti, dal momento che la (finta) crisi costruita attorno al suo programma nucleare civile è solo una copertura per raggiungere obiettivi strategici più complessi e per nulla pacifici.
Il segnale definitivo del precipitare della situazione era arrivato, come ampiamente annunciato, il 28 agosto, con Parigi, Londra e Berlino che avevano fatto scattare il meccanismo del cosiddetto “snapback”, previsto dal JCPOA. Attraverso di esso possono essere appunto reintrodotte le sanzioni multilaterali che gravavano sull’Iran prima del 2015 se uno dei firmatari dell’accordo ritiene che Teheran sia in violazione dell’accordo stesso. Il governo iraniano, così come quelli di Russia e Cina, entrambi parte del JCPOA, ritengono correttamente che il ricorso allo “snapback” non ha però nelle circostanze attuali nessuna base legale, né tantomeno morale.
Infatti, l’Iran si era sì svincolato dalle restrizioni imposte al suo programma nucleare, ma solo in seguito all’uscita unilaterale dal JCPOA da parte degli Stati Uniti durante il primo mandato di Trump. Come scritto nell’accordo, il boicottaggio di un paese firmatario dispensava l’Iran dal rispetto dei vincoli, proprio perché in tal caso vengono meno i benefici che questo paese ricava continuando a osservarne il dettato. Una realtà confermata dal fatto che Washington, dopo l’addio all’accordo, aveva iniziato a reimporre sanzioni unilaterali alla Repubblica Islamica.
Non solo, Francia, Regno Unito e Germania non avrebbero dato seguito all’impegno di tenere in piedi il JCPOA dopo l’uscita degli Stati Uniti, ma hanno a poco a poco anch’essi partecipato al regime sanzionatorio rilanciato da Trump. In breve, quindi, questi tre paesi intendono ora punire l’Iran pur essendo quest’ultimo la vittima, mentre essi stessi e il governo americano sono i veri trasgressori dell’accordo del 2015. Lo “snapback” non poteva essere invocato dagli USA perché appunto usciti dal JCPOA, così al loro posto hanno preso l’iniziativa i tre paesi europei firmatari dell’accordo. La risoluzione votata venerdì al Consiglio di Sicurezza, sulla quale non era possibile esercitare il potere di veto, ratifica dunque la riattivazione delle sanzioni internazionali, che entreranno nuovamente in vigore dal 27 settembre prossimo se non dovessero esserci ulteriori sviluppi, ovvero un improbabile accordo tra l’Iran e le sue controparti.
Quattro paesi hanno votato contro la reintroduzione delle sanzioni: Russia, Cina, Algeria e Pakistan. Nove invece a favore, mentre due sono stati gli astenuti. Mosca e Pechino hanno già annunciato che non rispetteranno le sanzioni in quanto illegittime. Ciò darà respiro alla Repubblica Islamica, comunque abituata da decenni a convivere con le misure punitive occidentali, ma l’ampiezza delle sanzioni che torneranno a breve in vigore peggiorerà ugualmente una situazione economica già complicata. Soprattutto, il voto di condanna all’ONU potrebbe dare il pretesto a USA e Israele per un nuovo attacco militare contro l’Iran. I provvedimenti che verranno reintrodotti includono un embargo sulla vendita di armi, limiti allo sviluppo del programma missilistico domestico, il congelamento di beni iraniani all’estero, negazione di visti per l’espatrio e divieto di vendita di tecnologia nucleare.
La malafede di questi paesi europei è testimoniata tra l’altro dal fatto che il voto al Consiglio di Sicurezza è arrivato pochi giorni dopo l’accordo, citato all’inizio e mediato dall’Egitto, tra Iran e AIEA che gettava le basi per il ritorno degli ispettori a visitare i siti nucleari della Repubblica Islamica. Da Teheran era stato subito spiegato che questo accordo sarebbe stato annullato in caso di riattivazione del meccanismo di “snapback”. Nonostante l’avvertimento, gli E3 non hanno fatto passi indietro, così che la nuova realtà che si verrà a creare dopo il 27 settembre rischia di spegnere definitivamente la luce sul programma nucleare iraniano e avvicinerà in maniera pericolosa una guerra di aggressione contro questo paese.
La chiusura occidentale nei confronti di Teheran si registra a fronte di ripetute concessioni da parte iraniana. L’accordo firmato al Cairo con l’AIEA era una delle principali, visto che l’agenzia dell’ONU aveva avuto un ruolo diretto nel facilitare gli attacchi mirati israeliani dello scorso giugno. Sempre venerdì, inoltre, poche ore prima del voto al Consiglio di Sicurezza, la delegazione iraniana aveva ritirato una risoluzione che intendeva mettere ai voti nella Conferenza Generale dell’AIEA per vietare attacchi militari contro installazioni nucleari. La decisione, secondo quanto riportato dai media internazionali, è stata presa su pressioni americane, ma non ha evidentemente avuto riscontro in sede ONU sulla questione “snapback”.
Resta aperto l’interrogativo sul comportamento dei tre paesi europei, che rimangono determinati a innescare un processo che non facilita lo sblocco dello stallo sul nucleare iraniano e che anzi rende più probabile uno scontro militare. È evidente, in primo luogo, che la questione del nucleare non è in nessun modo la vera ragione delle preoccupazioni occidentali. Essa viene agitata continuamente per vendere all’opinione pubblica internazionale la favola dello “stato canaglia” che lavora in segreto a un’arma nucleare in grado di distruggere l’Occidente o Israele, che, senza nessuna conseguenza né condanna, dispone peraltro di un arsenale nucleare non dichiarato.
L’insistenza degli E3 nell’imporre condizioni inaccettabili per Teheran in cambio di un allentamento delle pressioni ha piuttosto a che fare con il tentativo disperato di conservare un certo rilievo nelle principali dinamiche internazionali, facendosi portavoce delle istanze ultra-aggressive di Washington (e Tel Aviv), il cui obiettivo non è la firma di un accordo con la Repubblica Islamica, ma il cambio di regime puro e semplice e la distruzione di questo paese come elemento centrale dell’Asse della Resistenza.
L’accademico e commentatore americano-iraniano Trita Parsi ha collegato inoltre la disputa sull’Iran agli intrecci strategici sul fronte ucraino. A suo dire, l’Europa colpisce ciecamente e senza basi legali Teheran nel tentativo di compiacere la Casa Bianca e convincere Trump a modificare le proprie posizioni attorno al conflitto russo-ucraino, cioè a riallinearsi alla condotta dell’amministrazione Biden. In questo contesto, l’Iran viene punito in primo luogo per via della sua partnership strategica sempre più stretta con Mosca, senza troppi scrupoli per le possibili conseguenze di una rottura definitiva visti gli ormai esilissimi rapporti economici e commerciali che Teheran intrattiene con l’Europa.
Le “democrazie” europee, in generale, vedono anch’esse nell’Iran un nemico strategico, oltretutto con immense risorse energetiche, che ostacola le loro mire – e quelle dell’alleato americano – in Medio Oriente e una minaccia per il regime sionista, nonostante quest’ultimo stia portando a termine un genocidio e sia in guerra con quasi tutti i paesi della regione. Non essendo quindi il nucleare il vero problema, qualsiasi sforzo il governo iraniano metta in campo per fermare il processo della riattivazione delle sanzioni è destinato a non produrre risultati. All’Europa e agli Stati Uniti preme soltanto la politica della “massima pressione”, non per convincere l’Iran a fare concessioni che, ad esclusione della sostanziale rinuncia alla propria sovranità, non sarebbero comunque sufficienti, ma per cercare di mettere economicamente in ginocchio questo paese o legittimare, ma solo ai loro occhi, una nuova aggressione militare.