Gli attacchi populisti contro gli immigrati negli Stati Uniti continuano a essere un tratto caratteristico dell’amministrazione Trump. Alle parole si aggiungono frequentemente i fatti, con una lunga serie di provvedimenti xenofobi e reazionari messi in atto a partire dal gennaio scorso, l’ultimo dei quali ha riguardato questa settimana quasi 60 mila haitiani residenti provvisoriamente negli USA.

 

 

Questi cittadini del paese caraibico avevano trovato rifugio in America dopo il devastante terremoto che nel 2010 aveva colpito Haiti grazie a un programma governativo – “Temporary Protected Status” (TPS) – creato nel 1990.

 

Il TPS prevede che cittadini stranieri possano risiedere negli Stati Uniti in modo temporaneo se il governo federale certifica che nei paesi di origine non vi siano le condizioni per un loro ritorno a causa di disastri naturali o conflitti armati.

 

Attualmente, circa 300 mila stranieri beneficiano del programma. A inizio novembre, l’amministrazione Trump aveva già fatto sapere che non avrebbe rinnovato lo “status protetto” di 2.500 cittadini nicaraguensi, arrivati negli USA dopo un uragano che nel 1999 si era abbattuto sull’America centrale. Il provvedimento contro gli immigrati con cittadinanza del Nicaragua aveva generato il panico tra le altre comunità centro-americane, nonostante in quell’occasione fosse stato prorogato di sei mesi il permesso provvisorio di residenza per 57 mila honduregni. Infatti, la più recente mossa che penalizza i cittadini di Haiti ha confermato l’intenzione della Casa Bianca di condurre una guerra contro gruppi di immigrati particolarmente vulnerabili attraverso una semplice decisione dell’esecutivo.

 

Secondo la direttiva emessa questa settimana dal dipartimento per la Sicurezza Interna, per i 60 mila haitiani finora protetti dal TPS è previsto un periodo di “transizione” di 18 mesi che permetta loro di lasciare gli Stati Uniti per evitare di incorrere in una possibile deportazione.

 

La misura estrema minaccia di sconvolgere le vite di decine di migliaia di immigrati che negli ultimi sette anni sono riusciti a conquistare una qualche stabilità di vita negli USA, anche alla luce del fatto che gli haitiani colpiti dal provvedimento hanno complessivamente 27 mila figli nati nel paese che li accoglie. Questa preoccupazione è ancora maggiore per altri gruppi di immigrati protetti finora dal TPS, visto che molti di essi risiedono in America anche da decenni.

La ragione ufficiale del comportamento del governo americano è da collegare alle cambiate circostanze ad Haiti, dove non sarebbero più presenti le “condizioni straordinarie” che avevano giustificato l’applicazione del TPS.

 

In un’evidente falsificazione della realtà di Haiti, il dipartimento per la Sicurezza Interna ha sostenuto che in questi anni nel paese sono stati fatti “passi significativi per migliorare la stabilità e la qualità della vita” dei cittadini. In realtà, oltre a restare il paese più povero e disagiato dell’emisfero occidentale, Haiti è ben lontana dall’avere superato gli effetti del terremoto del gennaio 2010, responsabile della morte di oltre 300 mila persone e della distruzione di buona parte delle infrastrutture pubbliche e private.

 

Inoltre, molti dei gravi problemi economici e sociali, ma anche politici, di Haiti sono determinati in larga misura proprio dalle manovre neo-imperialiste degli Stati Uniti, così come dalla gestione delle varie emergenze da parte di organizzazioni e governi occidentali. Il rimpatrio forzato di quasi 60 mila haitiani interromperebbe oltretutto una parte dell’importantissimo flusso di rimesse destinate ai loro famigliari rimasti sull’isola, peggiorandone ancora di più le condizioni di vita.

 

Le decisioni dell’amministrazione Trump sembrano dunque chiudere un possibile percorso verso la regolarizzazione di centinaia di migliaia di immigrati centroamericani. Dopo i nicaraguensi e gli haitiani potrebbe infatti toccare ai quasi 195 mila salvadoregni residenti temporaneamente e ai 57 mila honduregni che, come ricordato in precedenza, hanno per ora ricevuto solo una breve proroga del loro permesso di residenza.

 

Tra le altre misure più odiose adottate dalla Casa Bianca contro gli immigrati allo scopo di alimentare l’odio xenofobo e i sentimenti nazionalisti per distogliere l’attenzione da politiche economiche e sociali reazionarie, ce n’è una invece che sempre questa settimana è stata bloccata da un giudice federale.

 

Il decreto presidenziale in questione è quello che intendeva tagliare gli stanziamenti federali destinati alle cosiddette “città santuario”. Queste ultime erano state minacciate perché, in violazione di una legge federale (“Immigration and Naturalization Act”), si rifiutano di comunicare al governo di Washington e alle sue agenzie informazioni sullo status degli immigrati irregolari che vivono sul loro territorio.

 

Un tribunale federale di San Francisco ha accolto il ricorso presentato dalla stessa città californiana e dalla contea di Santa Clara, sempre in California, facendo riferimento alla violazione da parte dell’amministrazione Trump del principio costituzionale della separazione dei poteri.

 

Solo il Congresso e non l’esecutivo, infatti, ha il potere di decidere lo stanziamento o il blocco di fondi, a meno che non deleghi formalmente il presidente. Nel discutere la causa, i legali del governo non sono stati nemmeno in grado di presentare una giustificazione del provvedimento contro le “sanctuary cities” sulla base del dettato della Costituzione americana.

 

Ciò conferma come il decreto, firmato da Trump già nel mese di gennaio, fosse stato messo assieme in maniera affrettata per mandare un segnale ai sostenitori di estrema destra del presidente, forse proprio con la speranza che i futuri ostacoli avrebbero sollecitato ancora di più gli istinti xenofobi e razzisti della ristretta base elettorale dell’amministrazione entrante.

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