Subito dopo la recentissima apertura di uno spiraglio da parte del dipartimento di Stato americano a un possibile negoziato tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord, la Casa Bianca è intervenuta ancora una volta per smentire l’ipotesi di una soluzione pacifica della crisi senza la resa totale e l’umiliazione del regime di Kim Jong-un. Nei giorni scorsi si è registrata infatti una nuova divergenza di vedute tra il presidente Trump e il suo segretario di Stato, Rex Tillerson, sulla questione nordcoreana.

 

 

Le posizioni contraddittorie all’interno dell’amministrazione repubblicana non sono cosa nuova, ma in merito allo scontro con Pyongyang continuano a sollevare dubbi sull’effettiva attitudine americana in un momento in cui i due paesi non sono mai stati così vicini a una guerra dal 1953.

 

Le speranze per un imminente sblocco dello stallo nella penisola di Corea sono state alimentate martedì da un intervento di Tillerson al “think tank” Atlantic Council di Washington. In un discorso nel complesso non esattamente accomodante nei confronti del regime di Kim, l’ex “CEO” di ExxonMobil ha dichiarato che gli USA sono disponibili a parlare con la Corea del Nord “senza condizioni preliminari”.

 

Una simile posizione rappresenterebbe una novità assoluta per l’amministrazione Trump, mostratasi finora teoricamente aperta al dialogo solo a condizione della rinuncia preventiva da parte nordcoreana al proprio programma e arsenale nucleare.

 

Per rafforzare il concetto, Tillerson ha ammesso che “non è realistico sostenere di essere pronti a parlare solo se [la Corea del Nord] è disposta ad abbandonare il suo programma nucleare”. Il commento successivo del segretario di Stato è sembrato poi contenere una vena quasi di disperazione, come se l’offerta di dialogo sia un ultimo estremo tentativo di evitare che la situazione sfugga al controllo delle parti in causa e precipiti verso una guerra rovinosa.

 

Tillerson ha cioè invitato il regime a un primo incontro anche senza particolari argomenti da mettere all’ordine del giorno. “Possiamo parlare del tempo se volete”, ha spiegato il capo della diplomazia USA, oppure “possiamo discutere del fatto che ci si debba sedere attorno a un tavolo quadrato o rotondo, se ciò vi stimola; ma almeno possiamo sederci e guardarci negli occhi”. L’unica apparente condizione fissata da Tillerson è un periodo di sospensione di tutti i test missilistici e nucleari da parte della Corea del Nord.

 

Il fermento scatenato dalle parole di Tillerson è sembrato in gran parte comprensibile, viste le varie minacce di distruzione della Corea del Nord e dei suoi abitanti lanciate da Trump e da altri membri della sua amministrazione nei mesi scorsi.

 

Le aspettative sono però rientrate quasi subito, dopo cioè che un membro dello staff del presidente ha fatto sapere dalla Casa Bianca alla Reuters che, “chiaramente, questo non è il momento giusto” per parlare con Pyongyang. L’inopportunità dell’uscita di Tillerson sarebbe dovuta al test, effettuato solo un paio settimane fa da Kim, di quello che potrebbe essere il primo missile balistico nordcoreano in grado di raggiungere tutti gli Stati Uniti continentali.

 

L’anonimo portavoce della Casa Bianca ha poi in sostanza ribadito la posizione ufficiale di Trump sulla questione nordcoreana, spiegando che “l’amministrazione è unita nell’insistere che qualsiasi negoziato debba attendere fino a che il regime non corregga completamente il proprio comportamento”.

 

Tillerson, da parte sua, ha anche in questa occasione confermato che la linea proposta martedì non è fondamentalmente diversa da quella del presidente. In realtà, le divergenze sono innegabili ed evidenziate dal fatto che la smentita di questa settimana sulla Corea del Nord è già la seconda in poco più di due mesi. Anche ai primi di ottobre, quando il segretario di Stato aveva rivelato che gli USA stavano tenendo aperti canali diretti di comunicazione con Pyongyang, Trump lo aveva invitato a “non sprecare tempo” in uno sforzo diplomatico che non avrebbe portato a nulla.

 

L’ultima offerta di dialogo di Tillerson è stata comunque seguita, nel suo discorso all’Atlantic Council, da precisazioni che confermano come i preparativi per una guerra nella penisola di Corea siano ben avanzati. Allo stesso tempo, il segretario di Stato ha anch’egli mandato segnali provocatori alla Cina, invitando questo paese a fare ancora di più per mettere alle strette l’alleato nordcoreano, tagliando ad esempio le forniture di petrolio.

 

Il suo accenno a un dialogo “senza condizioni preliminari” rimane tuttavia significativo, anche se di fatto soffocato da smentite e da iniziative militari difficilmente inquadrabili in un qualche processo di distensione.

 

Per gli osservatori più ottimisti, le dichiarazioni di Tillerson devono essere lette in parallelo al già ricordato test missilistico nordcoreano. In seguito a esso, Kim Jong-un aveva affermato che il suo paese aveva finalmente ultimato “la grande storica causa del completamento delle forze nucleari”.

 

Al di là della retorica a tratti delirante, il risultato annunciato da Kim sembrava indicare la disponibilità del regime a dare una svolta alla propria politica estera, e ad aprire quindi alla possibilità di un dialogo con Washington, una volta raggiunti gli obiettivi di difesa strategica del paese, reali o immaginari che siano. Ciò era dovuto in sostanza alla necessità di proiettare un’immagine di potenza tale da mettere sullo stesso piano i due rivali nel corso di un eventuale negoziato.

 

In questa prospettiva, le dichiarazioni di martedì di Tillerson potrebbero essere una risposta e assieme un segnale a Pyongyang della disponibilità anche degli Stati Uniti, o almeno di una parte della classe dirigente americana, a discutere attorno a un tavolo senza condizioni.

 

La vera incognita rimane però la posizione della Casa Bianca e delle forze che influenzano le scelte di politica estera di Trump oltre al dipartimento di Stato. Le prese di posizione del presidente e il rifiuto espresso finora per l’unica proposta diplomatica avanzata, quella russo-cinese per un “doppio congelamento” del programma nucleare nordcoreano e delle esercitazioni militari congiunte tra USA e Sudcorea, non promettono infatti nulla di buono.

 

Inoltre, vanno considerate seriamente le voci, moltiplicatesi nelle ultime settimane, di una possibile rimozione di Tillerson da segretario di Stato. Alla fine di novembre era circolata la notizia di una possibile imminente sostituzione di Tillerson con l’attuale direttore della CIA, Mike Pompeo.

 

Se le divergenze tra il dipartimento di Stato e la Casa Bianca fossero effettivamente profonde come suggeriscono i rimproveri di Trump sulla Corea del Nord, l’ultima uscita di Tillerson potrebbe essere sfruttata dal presidente proprio per rimuoverlo dal suo incarico e rimpiazzarlo quasi certamente con un “falco” poco propenso al dialogo con il regime di Kim.

 

Nell’equazione nordcoreana vanno infine considerati anche fattori esterni agli Stati Uniti. Se le decisioni prese a Washington e le stesse divisioni all’interno del governo americano saranno determinanti sull’esito della crisi in Asia nord-orientale, un certo fermento sembra animare le altre parti coinvolte nelle vicende della penisola di Corea, evidentemente allarmate dal progressivo scivolamento verso la guerra.

 

L’evento più significativo in questi giorni è l’incontro a Pechino tra il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, e quello cinese, Xi Jinping. Il vertice è dedicato a varie questioni, tra cui inevitabilmente quella nordcoreana. I rapporti bilaterali tra Seoul e Pechino sembrano tendere al miglioramento, dopo che i due governi hanno deciso di superare in qualche modo la questione del “THAAD”, ovvero il sistema anti-missilistico americano installato in Corea del Sud e considerato dalla Cina come una grave minaccia alla propria sicurezza.

 

Il governo cinese ha inoltre accolto con sollievo le parole di Tillerson all’Atlantic Council e, con ogni probabilità, cercherà di promuovere una soluzione pacifica per la crisi nella penisola con il presidente sudcoreano, a sua volta impegnato in un complicato equilibrismo per mediare tra l’alleanza con gli Stati Uniti e la volontà di evitare il precipitare della situazione con il vicino settentrionale.

 

Anche la Russia ha da parte sua salutato con favore le aperture di Tillerson. Inoltre, Mosca resta un attore importante in relazione alle vicende nordcoreane, sia pure non al livello della Cina e talvolta in maniera indiretta. Di ciò ne è prova ad esempio il vertice, inaugurato mercoledì, tra rappresentanti del Cremlino e del regime di Kim a Pyongyang per discutere dell’implementazione di un trattato bilaterale sulle attività militari di confine sottoscritto nel 2015.

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