L’offensiva dell’amministrazione Trump contro la Cina, nel disperato tentativo di contenere la crescente influenza economica e strategica del gigante asiatico, ha subito una nuova accelerazione in questi giorni, dispiegandosi su due fronti particolarmente delicati: Taiwan e guerra doganale.

 

Lo scorso fine settimana, il presidente americano ha firmato una nuova legge, approvata all’unanimità dal Congresso di Washington, che rappresenta una provocazione nei confronti di Pechino. Il Taiwan Travel Act incoraggia in sostanza esponenti di qualsiasi livello del governo USA a recarsi in questo paese per incontrare le proprie controparti. Allo stesso tempo, il provvedimento consente e facilita le visite negli Stati Uniti di alti ufficiali del governo taiwanese.

 

 

Come ha spiegato un commento della testata ufficiale cinese Global Times, “nella politica internazionale, gli scambi ufficiali corrispondono al riconoscimento bilaterale di sovranità”. In altri termini, la mossa dell’amministrazione Trump minaccia di contraddire la politica di “una sola Cina”, abbracciata ufficialmente da Washington a partire dal 1979 e che ha costituito fino a oggi il fondamento dei rapporti con Pechino.

 

Il riconoscimento, almeno a livello ufficiale, dell’esistenza di un solo paese di cui fa teoricamente parte Taiwan è uno dei capisaldi ideologici del governo cinese, tanto che quest’ultimo ha sempre minacciato l’uso della forza nell’eventualità di una dichiarazione di indipendenza da parte delle autorità dell’isola. Gli Stati Uniti, in seguito al processo di distensione avviato nel 1971 con Pechino in chiave anti-sovietica, avevano rotto formalmente le relazioni diplomatiche con Taiwan nel 1979, riconoscendo di fatto questo paese come parte integrante della Cina.

 

Parallelamente, un delicato equilibrio era stato mantenuto con l’approvazione del Taiwan Relations Act, che autorizzava la prosecuzione delle relazioni bilaterali, sia pure evitando scambi ufficiali. Gli Stati Uniti, inoltre, si impegnavano a difendere l’isola da tentativi di riunificazione con la forza eventualmente messi in atto da Pechino.

 

La più recente decisione americana ha così suscitato le prevedibili ire cinesi. Un portavoce del ministero degli Esteri ha affermato che il Taiwan Travel Act “viola pesantemente” il principio di “una sola Cina” e invia “segnali sbagliati alle forze favorevoli all’indipendenza di Taiwan”. Lo stesso presidente Xi Jinping è intervenuto sulla questione martedì al termine della sessione annuale del parlamento cinese. Le sue critiche si sono concentrate sul governo di Taiwan, il quale, a detta di Xi, rischia di essere “punito dalla storia” se dovesse muoversi verso l’indipendenza. Nel suo discorso di fronte all’assemblea, il presidente cinese ha garantito l’impossibilità “di separare dalla Cina anche un solo centimetro del nostro grande territorio”.

 

La profonda irritazione di Pechino è spiegata dai precedenti di Trump sulla questione di Taiwan, ma anche dal fatto che alla guida di questo paese ci sia dal 2016 una presidente - Tsai Ing-wen - affiliata al Partito Democratico Progressista, di orientamento tradizionalmente indipendentista.

 

Nonostante le ripetute proteste cinesi, Trump nei mesi scorsi ha approvato ingenti forniture di armi a Taiwan, mentre ha aperto la strada alla partecipazione delle forze armate di questo paese a esercitazioni con quelle americane. Anche se proveniente da fonti non ufficiali, da qualche tempo circola poi la notizia che una manciata di marines americani potrebbe soggiornare in pianta stabile nella nuova rappresentanza diplomatica USA che aprirà a Taipei nel corso dell’anno.

 

Il presidente americano aveva già rotto le pratiche consolidate nella gestione dei rapporti con Taiwan. Nel dicembre del 2016, ancora prima del suo insediamento, Trump aveva telefonato a Tsai Ing-wen per congratularsi del suo successo elettorale, facendo registrare il primo contatto diretto tra i leader dei due paesi dal 1979. In seguito, con un’altra provocazione studiata a tavolino, Trump aveva apertamente messo in discussione la politica di “una sola Cina”, il cui rispetto il neo-presidente aveva vincolato a eventuali progressi da parte di Pechino sul fronte degli scambi commerciali.

 

La questione di Taiwan viene dunque sempre più integrata nella strategia asiatica anti-cinese degli Stati Uniti, sia per la sensibilità che essa ha per Pechino sia per l’importanza strategica dell’isola per gli interessi cinesi e nell’eventualità di una guerra tra le prime due potenze economiche del pianeta.

 

L’altro fronte caldo sull’asse sino-americano è quello delle tariffe doganali, coerentemente con le tendenze protezioniste sempre più evidenti della Casa Bianca. La stampa USA ha anticipato che entro il fine settimana Trump annuncerà l’adozione di nuovi dazi da applicare a un centinaio di prodotti provenienti dalla Cina per un valore di 60 miliardi di dollari l’anno.

 

Se ciò dovesse accadere, gli Stati Uniti si esporrebbero alle probabili ritorsioni della Cina, il cui governo avrebbe svariate opzioni in questo senso, nonostante la condizione di semi-dipendenza reciproca dei rispettivi sistemi economici e finanziari. Ad esempio, Pechino potrebbe facilmente limitare le importazioni dagli USA, a cominciare da quelle dei prodotti agricoli.

 

La Cina è anche il primo possessore del debito pubblico americano, del quale detiene quasi 1.200 miliardi di dollari. Secondo quando riportato dal Washington Post, Pechino ha già ridotto di 33,5 miliardi la quantità di titoli del Tesoro USA in suo possesso. Un ulteriore rallentamento o una vendita massiccia potrebbe chiaramente mettere in seria difficoltà gli Stati Uniti, spingendo in primo luogo verso l’alto gli interessi su un debito pubblico già a livelli a dir poco stratosferici.

 

L’iniziativa di Trump sui dazi sarà presa in base alla sezione 301 del Trade Act del 1974. Il responsabile delle politiche commerciali per l’amministrazione repubblicana, Robert Lighthizer, aveva condotto un’analisi delle pratiche cinesi in questo ambito, consigliando al presidente un pacchetto di dazi pari a 30 miliardi di dollari. Trump ha tuttavia valutato la cifra troppo bassa e chiesto almeno di raddoppiarla.

 

La mossa, se confermata, arriverebbe dopo la recente decisione sulle tariffe doganali imposte alle importazioni di acciaio e alluminio, e sarebbe motivata con la necessità di punire Pechino a causa di quelli che Washington definisce come furti di proprietà intellettuale ai danni delle aziende americane, soprattutto in ambito tecnologico. Una parte delle merci colpite dai nuovi dazi, secondo la Casa Bianca, sarebbero realizzate in Cina proprio grazie allo sviluppo di segreti commerciali sottratti illegalmente alle compagnie americane o che queste ultime hanno dovuto cedere a Pechino in cambio dell’accesso al mercato cinese.

 

In questo caso, la risposta di Pechino è stata di ribadire il proprio impegno per la libertà degli scambi internazionali, condannando implicitamente le iniziative protezionistiche americane. Sempre al termine della sessione del parlamento cinese, inoltre, le autorità governative hanno annunciato nuove misure per aprire ulteriormente il mercato interno. Per replicare alle notizie provenienti da Washington, il governo cinese ha delineato anche un percorso di riforme che includerà, tra l’altro, la facilitazione delle operazioni delle aziende straniere in Cina, l’abbassamento delle rimanenti tariffe doganali sulle importazioni e norme più severe sul rispetto della proprietà intellettuale.

 

Secondo il Washington Post, i dazi allo studio rappresentano comunque “uno dei pacchetti di sanzioni economiche più vasto imposto da un presidente americano contro la Cina nell’era moderna”. Per questa ragione, il provvedimento potrebbe “provocare la reazione di Pechino, mettendo a rischio la partnership commerciale tra le due più grandi potenze economiche del pianeta”.

 

La decisione della Casa Bianca è peraltro in larga misura di natura politica, visto che potrebbe risultare controproducente e che ha già incontrato la ferma opposizione di svariati settori del business americano. Le pressioni esercitate in questo modo su Pechino sono cioè una linea di attacco parallela a quella diplomatica e militare, diretta in definitiva a demonizzare il comportamento cinese anche nell’ambito delle relazioni commerciali, con l’obiettivo, decisamente arduo da raggiungere, di isolare questo paese a livello internazionale.

 

Buona parte degli ambienti economici americani ha dunque criticato l’amministrazione Trump per i dazi che potrebbero essere applicati a breve. Mentre sulle preoccupazioni per l’impetuosa crescita cinese vi è un consenso pressoché unanime negli USA, le modalità delle iniziative della Casa Bianca vengono messe in seria discussione in quanto rischiano di penalizzare proprio le aziende americane.

 

Principalmente, i dazi voluti da Trump minacciano di avere conseguenze negative sugli esportatori americani che vendono componenti, soprattutto tecnologici, di prodotti assemblati in Cina e poi importati negli Stati Uniti. Molte delle merci che arrivano negli USA dalla Cina sono realizzati infatti in questo paese da multinazionali, molte delle quali americane, le quali rischiano così di essere colpite dalle nuove tariffe doganali.

 

Come hanno fatto notare alcuni analisti, il deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Cina è attualmente di oltre 375 miliardi di dollari all’anno e dazi per 60 miliardi faranno ben poco per riequilibrare la situazione. Non solo, se uno degli obiettivi ufficiali di Trump è quello di dare un impulso all’occupazione in territorio americano, ciò potrebbe rimanere un miraggio.

 

Un economista americano sentito dal Washington Post ha spiegato che l’eventuale riduzione delle importazioni dalla Cina determinerà solo un aumento di quelle provenienti da altri paesi a basso costo, come Bangladesh o Vietnam, e non certamente il trasferimento della produzione di queste merci negli Stati Uniti.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy