Essendo l’Armenia tradizionalmente in buoni rapporti con Mosca, nonché situata in una posizione strategica sensibile, l’ondata di proteste che sta attraversando in questi giorni il paese caucasico ha subito sollevato forti dubbi sul possibile ruolo dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti nel movimento già battezzato da uno dei leader dell’opposizione come “rivoluzione di velluto”.

 

Il riferimento di Nikol Pashinyan, numero uno del partito del Contratto Civile e attivissimo protagonista delle proteste in corso, è alle cosiddette “rivoluzioni colorate” che da oltre un decennio vengono innescate da organizzazioni finanziate dall’Occidente per rovesciare regimi o governi ostili sfruttando manifestazioni di protesta, quasi sempre più che legittime ancorché relativamente circoscritte.

 

 

Nel caso armeno, la crisi politica era iniziata il 13 aprile scorso con la nomina a primo ministro, da parte del parlamento, di Serzh Sargsyan. Quest’ultimo aveva ricoperto la carica di presidente dal 2008 e per due mandati, cioè il massimo previsto dalla Costituzione armena. Nel 2015, il Partito Repubblicano (HHK) di maggioranza aveva approvato una modifica costituzionale per trasferire la gran parte dei poteri del presidente alla figura del primo ministro, in modo da garantire la continuità al potere dello stesso Sargsyan.

 

Le proteste sono iniziate coinvolgendo poche centinaia di persone, ma nei giorni successivi i partecipanti sono stati stimati, a seconda delle fonti, tra i 100 e i 200 mila, un numero decisamente significativo a fronte della popolazione armena di poco inferiore ai tre milioni. Lo stesso Pashinyan domenica scorsa era stato arrestato, e poi rilasciato, per avere preso parte alle manifestazioni. Protagonisti sono soprattutto gli studenti, anche se lavoratori di alcuni settori dell’economia del paese sembrano essere ugualmente coinvolti, a conferma della genuinità delle frustrazioni nei confronti della cerchia di potere attorno a Sargsyan.

 

Il neo-primo ministro, ad ogni modo, a inizio settimana ha finito per annunciare le sue dimissioni. La decisione è stata senza dubbio motivata dalla portata delle proteste, ma anche e forse di più dai crescenti malumori all’interno dell’apparato di potere. I segnali più evidenti sono stati, tra gli altri, la partecipazione alle manifestazioni di centinaia di membri delle forze armate e l’inquietudine del partner di coalizione dell’HHK, il partito “Dashnaktsutyun” (Federazione Rivoluzionaria Armena), i cui leader hanno deciso mercoledì di uscire dalla maggioranza di governo.

 

Alcuni parlamentari di questa formazione hanno espresso il loro appoggio a Nikol Pashinyan e alle rivendicazioni dei manifestanti. Il Partito Repubblicano di Sargsyan conserva comunque la maggioranza assoluta in parlamento, ma i segnali di nervosismo appaiono più che evidenti. Le proteste di piazza sono infatti proseguite anche dopo le dimissioni del primo ministro, mentre i media ufficiali in Occidente continuano a dare ampio spazio alle notizie provenienti dall’Armenia e hanno di fatto abbracciato la causa “democratica” dell’opposizione.

 

Forte anche di questa investitura, Pashinyan da parte sua ha chiarito di volere niente di meno che la presa del potere, nonostante il modesto livello di consenso elettorale raccolto dal suo partito e dal resto dell’opposizione. Il 42enne Pashinyan sta cercando così di convincere il maggior numero di parlamentari a sostenere la sua candidatura a primo ministro, dopo che un voto in parlamento per sostituire Sargsyan è stato indetto per il primo di maggio.

 

L’evolversi della situazione in Armenia sta dunque preoccupando sia il governo russo, con cui quello di Yerevan è in larga misura allineato, sia gli Stati Uniti e l’Europa principalmente per due ragioni. La prima accomuna entrambe le parti e ha a che fare con la necessità di evitare che le proteste sfuggano di mano alle forze politiche armene, siano esse quelle al potere o all’opposizione.

 

Le condizioni sociali ed economiche di questo paese sono d’altra parte pesanti. La disoccupazione ufficiale sfiora il 20%, mentre circa un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà.

 

L’Armenia, inoltre, a differenze dei paesi vicini non dispone di risorse del sottosuolo ed è pericolosamente dipendente da dinamiche internazionali, come le sanzioni punitive imposte dall’Occidente alla Russia e il conflitto nell’enclave armena del Nagorno-Karabakh nel territorio dell’Azerbaigian. Per quanto riguarda poi la classe politica indigena e, in particolare, Sargsyan e il suo partito, essa è in sostanza sinonimo di corruzione, clientelismo e arricchimento grazie alle posizioni ricoperte dai suoi esponenti nelle strutture dello stato.

 

La seconda causa dell’importanza globale della crisi in Armenia è appunto legata alla collocazione strategica di questo paese. Il Cremlino ha per il momento sostenuto che le vicende in atto sono di natura puramente interna, ma il ministro degli Esteri armeno, Eduard Nalbandian, e il vice-primo ministro, Armen Gevorgian, si sono recati a Mosca nei giorni scorsi per discutere col governo russo dei fatti del loro paese. Il presidente Putin mercoledì ha a sua volta avuto una conversazione telefonica con l’omologo armeno, Armen Sarkissian, concordando sulla necessità di “risolvere la crisi attraverso il dialogo”.

 

Pochi dubbi ci possono essere sui timori della Russia per lo sfruttamento delle proteste da parte delle forze filo-occidentali e dei loro sponsor negli USA e in Europa. Fin dall’indipendenza nel 1991, l’Armenia ha conservato rapporti molto stretti con Mosca, sia in ambito economico sia militare, come conferma la presenza di un’importante base militare russa in questo paese, così da essere perennemente esposta alle manovre dell’Occidente.

 

L’influenza della Russia sull’Armenia è sembrata tuttavia oscillare negli ultimi anni e probabilmente anche per questo le apprensioni di Mosca sono ancora più forti alla luce della situazione odierna. Il governo di Yerevan ha più volte mostrato segnali di un possibile avvicinamento all’Europa, tanto che nel 2013 fu sul punto di firmare un “accordo di associazione” con l’Unione, ovvero un trattato per instaurare una cooperazione in ambito economico e commerciale.

 

Probabilmente anche dietro pressioni russe, Sargsyan finì per declinare la proposta europea, decidendo invece di entrare nell’Unione Economia Eurasiatica, promossa da Mosca e di cui fanno parte oggi anche Bielorussa, Kazakistan e Kirghizistan.

 

L’opposizione filo-occidentale ha comunque continuato a sostenere l’opportunità di una svolta strategica verso l’Europa e gli Stati Uniti. Lo stesso governo armeno nel 2017 ha rilanciato la questione della collaborazione con Bruxelles, tanto che lo scorso novembre ha sottoscritto un “accordo di partnership” con l’Unione, dopo che i negoziati erano già stati dichiarati conclusi nel febbraio precedente.

 

Sugli indirizzi di politica estera del paese caucasico vi sono dunque da tempo divisioni e differenze trasversali nella classe politica armena e gli eventi di questi giorni hanno portato a un inasprimento della crisi interna. La situazione è oltretutto aggravata dal sovrapporsi a essa del clima regionale segnato dallo scontro sempre più acceso tra gli Stati Uniti e i loro alleati da una parte e la Russia, l’Iran e la Turchia dall’altra. Le vicende in Europa orientale e in Medio Oriente hanno evidentemente più di un riflesso anche sull’Armenia, soprattutto in relazione a potenze regionali come Turchia e Iran, con cui Yerevan ha rapporti rispettivamente tesi e cordiali.

 

Considerando questi eventi, la stessa posizione dell’Armenia risulta di estremo rilievo, visto che questo paese rappresenta una sorta di collegamento tra Oriente e Occidente ed  è circondato da alcuni dei giacimenti petroliferi e di gas naturale più importanti e contesi del pianeta.

 

Un altro elemento da considerare è anche il possibile aggravamento del conflitto nel Nagorno-Karabakh. Già nella primavera del 2016 lo scontro tra Armenia e Azerbaigian era riesploso in maniera cruenta e quest’ultimo paese, alleato degli Stati Uniti e legato all’Europa soprattutto in ambito energetico, potrebbe approfittare del caos politico a Yerevan per conquistare posizioni nel territorio dell’enclave a maggioranza armena.

 

Per quanto riguarda la crisi innescata dalla nomina a premier e dalle successive dimissioni di Serzh Sargsyan, infine, tra i vari leader del panorama politico armeno sono in corso in questi giorni frenetiche discussioni, influenzate con ogni probabilità dalle potenze straniere con interessi nel paese.

 

In uno scenario estremamente fluido, l’obiettivo di Nikol Pashinyan è quello di ottenere la carica di primo ministro sull’onda delle proteste di piazza e organizzare un voto anticipato senza il controllo del Partito Repubblicano sulla macchina elettorale, all’origine, secondo l’opposizione, di brogli e manipolazioni che avrebbero impedito fin qui una competizione equa e trasparente.

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