Alcuni particolari della politica estera sempre più aggressiva e destabilizzante della monarchia saudita e degli Emirati Arabi sono emersi in questi giorni dopo la pubblicazione di un clamoroso retroscena della disputa, tuttora in corso, tra questi regimi e l’emirato del Qatar.

 

La testata on-line americana The Intercept ha rivelato che, nell’estate dello scorso anno, l’Arabia Saudita era pronta a invadere militarmente il piccolo paese del Golfo Persico in seguito al rifiuto da parte di quest’ultimo di accettare i diktat di Riyadh riguardo i propri orientamenti strategici.

 

A impedire l’operazione e a far saltare i piani già predisposti dai leader sauditi sarebbe stata l’azione dell’allora segretario di Stato americano, Rex Tillerson. Quest’ultimo era stato spinto a muoversi forse per gli stretti legami che, da amministratore delegato di ExxonMobil, vantava con il governo del Qatar. Più probabilmente, Tillerson era preoccupato per la possibile escalation di un conflitto tra alleati che rappresentava anche per Washington una pericolosa distrazione dalle altre crisi mediorientali.

 

 

Secondo anonimi esponenti del dipartimento di Stato e dell’intelligence USA, Tillerson si sarebbe prodotto in una serie di telefonate con Riyadh nel tentativo di convincere il regime a non ricorrere a mezzi militari per risolvere la disputa col Qatar. L’intervento e la diplomazia telefonica di Tillerson erano già stati riportati dai media lo scorso anno, ma la versione proposta al pubblico era che il segretario di Stato cercava soltanto di allentare le tensioni tra i paesi del Golfo ormai ai ferri corti.

 

Tillerson era invece intento a persuadere l’allora vice erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, oggi primo in linea di successione al sovrano, ad abbondare il piano segreto per l’invasione del paese vicino. Un eventuale ingresso delle truppe saudite e degli Emirati sul territorio del Qatar avrebbe anche potuto creare imbarazzo tra gli alleati, visto che nel piccolo emirato il Pentagono ha il quartier generale avanzato del proprio “Comando Centrale”, dove sono ospitati circa 10 mila uomini.

 

Nella crisi che stavano attraversando i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico (GCC), Tillerson aveva una posizione distinta da quella della Casa Bianca. Trump era sembrato infatti dare carta bianca a Riyadh e Abu Dhabi per rimettere in riga i regnanti del Qatar. A questi ultimi, la monarchia saudita e quella degli Emirati rimproveravano, e rimproverano tuttora, un atteggiamento troppo tenero nei confronti dell’Iran e l’appoggio finanziario alle organizzazioni affiliate ai Fratelli Musulmani.

 

Formalmente, l’accusa rivolta al Qatar era tuttavia di sostenere movimenti terroristici. In effetti, ciò non si discosta di molto dalla realtà, basti pensare ai gruppi anti-Assad in Siria, ma su questo fronte Arabia Saudita ed Emirati Arabi non sono stati da meno. Semplicemente, Riyadh e Doha finanziavano formazioni integraliste differenti per promuovere i rispettivi interessi.

 

Alla fine, entrambi i regimi del Golfo decisero di fare un passo indietro e adeguarsi alle esortazioni di Tillerson per evitare uno scontro diplomatico con gli Stati Uniti. Di lì a poco, però, i vertici di Arabia Saudita ed Emirati Arabi avrebbero iniziato una campagna di pressioni sul presidente Trump per convincerlo a liquidare il suo segretario di Stato. Tillerson sarebbe stato alla fine rimosso dall’incarico alla fine di marzo di quest’anno, per essere sostituito dal “falco” ex direttore della CIA, Mike Pompeo.

 

A chiedere la testa di Tillerson erano in particolare il già ricordato Mohammed bin Salman e l’erede al trono degli Emirati, Mohammed bin Sayed, entrambi considerati gli uomini più influenti dei rispettivi regimi. Lo stesso piano per invadere il Qatar era stato da essi sviluppato e, anche per questo, furono proprio loro a insistere per il siluramento di Tillerson.

 

Quest’ultimo era venuto a conoscenza dei progetti militari di Riyadh e Abu Dhabi dai servizi di intelligence del Qatar, il cui governo sapeva evidentemente di poter contare sul dipartimento di Stato. Secondo The Intercept, alcuni mesi più tardi, i servizi segreti di Stati Uniti e Gran Bretagna avrebbero trovato conferma dell’esistenza del piano saudita.

 

La notizia delle vere intenzioni delle due principali monarchie assolute del Golfo per risolvere la crisi con il Qatar è un’ulteriore conferma della tendenza di entrambi i regimi a cercare di imporre i propri interessi in maniera sempre più aggressiva in Medio Oriente. Il piano abortito di occupare Doha è inscrivibile in un quadro post-primavera araba che ha visto l’Arabia Saudita e i suoi più stretti alleati reprimere nel sangue la rivolta sciita in Bahrein nel 2011, alimentare il conflitto in Siria, sostenere la violenta contro-rivoluzione del generale al-Sisi in Egitto e scatenare una guerra brutale e al limite del genocidio in Yemen.

 

L’aggressività della casa regnante saudita, accentuata con l’ascesa di Mohammed bin Salman, è la risposta a un mix di problematiche che vanno collegate sia alla crisi di legittimità sul fronte domestico, evidenziata a sua volta dalle lacerazioni interne al regime, sia all’aspra competizione con l’Iran per l’influenza sulla regione.

 

Com’è evidente, la spregiudicatezza dell’Arabia Saudita nel perseguire i propri obiettivi con la forza e, di fatto, al di fuori del diritto internazionale sarebbe impensabile senza il beneplacito di Washington. Al di là dell’ostilità mostrata da Tillerson circa la possibile invasione del Qatar, Riyadh continua ad avere sostanzialmente mano libera in Medio Oriente perché rappresenta, dopo Israele, il partner più fidato degli Stati Uniti, soprattutto in chiave anti-iraniana, grazie a un intreccio fatto in primo luogo di “petrodollari” e ricchissime commesse militari.

 

Oltre a questi aspetti, come ha ricordato l’esclusiva di The Intercept, ci sarebbero state forse anche altre motivazioni dietro l’idea saudita di invadere il Qatar. Esse hanno a che fare con il deterioramento della situazione finanziaria del regno wahhabita, sottolineata dal fatto che, a partire dall’ascesa al trono di re Salman nel 2015, il regime ha bruciato più di un terzo delle proprie riserve che sfioravano i 740 miliardi di dollari.

 

Una grave recessione, la disoccupazione giovanile a livelli preoccupanti, la necessità di garantire la pace sociale con massicci interventi di welfare e la dispendiosità delle iniziative belliche e non solo dell’erede al trono hanno costretto la leadership saudita a cercare risorse spesso per vie non esattamente ortodosse.

 

A parte la possibile vendita di una quota del colosso petrolifero pubblico Aramco, rientra almeno parzialmente in questo scenario la tragica farsa dello scorso autunno che aveva visto la detenzione di decine di membri della famiglia reale, accusati di corruzione e costretti a rimettere nelle mani del governo i loro patrimoni miliardari. Nel caso del Qatar, ciò che faceva gola a Riyadh era un fondo sovrano da 320 miliardi di dollari e riserve di gas naturale tra le più ingenti di tutto il pianeta.

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