La visita di questa settimana in Corea del Nord del presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha confermato il costante miglioramento delle relazioni tra Pyongyang e Seoul. I due leader hanno sottoscritto una serie di accordi più o meno rilevanti, mentre Kim Jong-un ha annunciato ulteriori impegni e concessioni che sarebbe pronto a fare in cambio di qualche gesto reciproco da parte degli Stati Uniti.

 

Moon è diventato in questi giorni il terzo presidente della Corea del Sud a recarsi a Pyongyang, dopo le trasferte del 2000 di Kim Dae-jung e del 2007 di Roh Moo-hyun nel quadro della cosiddetta “Sunshine Policy”. Moon e l’attuale leader nordcoreano si erano già incontrati in due occasioni, entrambe lungo il confine, ad aprile e maggio di quest’anno.

 

L’obiettivo dichiarato della delegazione sudcoreana per quest’ultima visita era il tentativo di rilanciare il processo diplomatico tra Pyongyang e Washington dopo lo stallo subentrato agli entusiasmi suscitati dallo storico incontro tra Trump e Kim a Singapore nel mese di giugno. Come ha scritto la testata on-line governativa cinese Global Times, il compito di Moon sembra essere in buona parte quello del “lobbista” per l’amministrazione Trump e, infatti, a Pyongyang si è assicurato varie promesse da parte di Kim dirette senza dubbio alla Casa Bianca.

 

Kim ha parlato pubblicamente e davanti a membri della stampa estera nel corso di una conferenza con il collega sudcoreano, durante la quale ha assicurato come i due paesi concordino nel fare della penisola coreana “una terra di pace senza armi né minacce nucleari”. Nel concreto, il numero uno del regime nordcoreano si è detto pronto a chiudere, alla presenza di osservatori dei “paesi interessati”, il sito missilistico di Dongchang-ri. Questo impianto è situato nel nord-ovest del paese ed è ritenuto il centro nevralgico del programma di missili balistici intercontinentali, in teoria capaci di raggiungere il territorio americano.

 

Sempre nel quadro di iniziative reciproche, Kim ha inoltre ipotizzato lo smantellamento permanente della principale infrastruttura nucleare nordcoreana, quella di Yongbyon, a nord della capitale. Dopo il vertice di Singapore, dove aveva espresso un generico impegno per la denuclearizzazione della penisola, Kim ha già congelato i testi missilistici e nucleari, mentre alla vigilia di esso era stata portata a termine la distruzione di un altro sito missilistico.

 

Il gesto che Pyongyang si aspetta dalla Casa Bianca è una dichiarazione formale che chiuda ufficialmente la guerra del 1950-53 e conduca a un trattato di pace al posto dell’armistizio siglato dalle parti in causa oltre sei decenni fa. Il regime di Kim ha evidentemente necessità di ricevere rassicurazioni dai propri nemici prima di procedere con misure concrete per lo smantellamento del proprio arsenale nucleare e missilistico, visto comprensibilmente come una garanzia di sopravvivenza di fronte alla concreta minaccia americana.

 

All’interno dell’amministrazione Trump non sembra esserci invece una posizione univoca sull’approccio alla Corea del Nord e la richiesta di Kim. In linea generale, i media americani sostengono che la Casa Bianca non intende fare concessioni significative prima della denuclearizzazione del regime. Più precisamente, al di là delle promesse di Kim, a Washington ci sono forti resistenze a formalizzare la fine della guerra, poiché ciò comporterebbe il venir meno anche a livello ufficiale della minaccia nordcoreana. Minaccia o presunta tale che gli Stati Uniti utilizzano convenientemente per mantenere quasi 30 mila soldati in Corea del Sud e per giustificare politiche aggressive nei confronti di Pechino.

 

Anche se gli impegni presi questa settimana da Kim, così come le modalità con cui sono stati espressi, risultano insoliti per il regime e per certi versi quasi straordinari, i media americani hanno per lo più smorzato gli entusiasmi. Molti hanno ricordato ad esempio come Pyongyang non abbia ancora accettato altre richieste degli USA, come la consegna di un elenco delle armi nucleari in proprio possesso o una tabella di marcia precisa per il processo di denuclearizzazione.

 

Quasi sempre vengono inoltre ricordati alcuni rapporti e indagini che nelle scorse settimane avevano mostrato come le attività in ambito nucleare in Corea del Nord fossero continuate dopo il summit di Singapore. In realtà, Kim in quell’occasione non aveva preso alcun impegno specifico in questo senso, né era stato siglato un accordo esplicito, né, ancora, l’amministrazione Trump ha ricambiato le aperture nordcoreane con iniziative o promesse chiare, ad eccezione della sospensione delle esercitazioni militari con Seoul.

 

In definitiva, la questione che deve essere posta a questo punto del processo diplomatico non è, come sostiene la stampa ufficiale, se Kim o Moon riusciranno a convincere Trump della sincerità delle intenzioni nordcoreane. Se mai, è il governo americano a dover sciogliere i dubbi e a risolvere le divisioni interne, aprendo a una trattativa di pace che, in quanto tale, non può basarsi su minacce e diktat unilaterali, ma su un percorso graduale fatto di concessioni reciproche.

 

Trump, da parte sua, ha comunque accolto positivamente il summit di Pyongyang, definendo su Twitter “entusiasmanti” le promesse di Kim. Resta tuttavia da vedere se nell’immediato ci saranno le condizioni per un secondo faccia a faccia tra i due leader, come lo stesso Trump aveva lasciato intendere dopo avere ricevuto una lettera da Kim ai primi di settembre. Il sentimento prevalente a Washington lo ha espresso forse il senatore repubblicano Lindsey Graham, tradizionalmente ascrivibile ai “falchi” della politica estera USA. Graham ha addirittura condannato la visita di Moon a Pyongyang perché in contrasto con la politica di “massima pressione” sulla Corea del Nord condotta dalla diplomazia americana.

 

Nel corso del vertice di questa settimana, i leader delle due Coree hanno trovato un’intesa anche su varie questioni bilaterali. La più rilevante è l’accordo militare per evitare scontri armati lungo la linea di confine e non solo. Seoul e Pyongyang si impegnano cioè a cessare tutte le esercitazioni lungo il 38esimo parallelo e a ritirare le guardie di frontiera, in modo da creare un’area demilitarizzata dal Mar Giallo al Mar del Giappone.

 

Kim ha poi sollevato l’ipotesi di un suo viaggio a Seoul in quella che sarebbe una prima assoluta per un leader nordcoreano. Il presidente Moon ha affermato che la visita potrebbe avvenire entro la fine dell’anno. I due governi continuano infine a cercare di favorire le relazioni bilaterali anche attraverso lo sport. Seoul e Pyongyang proveranno a candidarsi per ospitare assieme le Olimpiadi estive del 2032, mentre sarà possibile la partecipazione con un team congiunto ai giochi di Tokyo del 2020. Un’unica squadra rappresentante le due Coree aveva già preso parte alle Olimpiadi invernali dello scorso febbraio nella località sudcoreana di PyeongChang, contribuendo a creare un clima propizio per i successivi sviluppi diplomatici.

 

Queste e altre iniziative già prese nei mesi scorsi confermano come tra le due Coree il processo diplomatico sia ben avviato e in una certa misura promettente, malgrado le resistenze all’interno di entrambe le classi dirigenti.

 

Da parte di Seoul, nonostante la retorica della pace e della fratellanza tra i due popoli, c’è soprattutto la ferma intenzione di sfruttare gli aspetti economici del disgelo. Da un lato, il governo Moon e il business sudcoreano puntano a partire da una posizione di privilegio in caso di apertura del vicino settentrionale, in modo da avere a disposizione una vasta manodopera disciplinata e conveniente, innescando nel contempo una competizione che abbassi il costo del lavoro anche in Corea del Sud. A dimostrazione degli interessi in questo ambito, Moon si è recato a Pyongyang con una folta delegazione di top manager, tra cui quelli di Samsung e Hyundai.

 

Dall’altro, il governo sudcoreano guarda con interesse al coinvolgimento della Corea del Nord nei molteplici piani di integrazione economica, commerciale e infrastrutturale che si propongono di collegare i paesi del continente asiatico e questi ultimi con l’Europa. La Corea del Nord potrebbe cioè diventare un punto di transito importante per i traffici commerciali e le forniture energetiche da e per la Corea del Sud.

 

Tutte queste dinamiche sono in ogni caso vincolate alle decisioni che prenderà il governo americano sulla questione coreana nel prossimo futuro. Per Washington, il nodo centrale resta il quadro più ampio della competizione con Pechino e se il regime di Kim, come ha spiegato un paio di settimane fa il segretario di Stato Pompeo, sarà pronto in sostanza a voltare le spalle all’alleato cinese, operando quella “svolta strategica” chiesta da Washington in cambio della normalizzazione dei rapporti bilaterali.

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