La cerimonia e gli eventi di contorno tenuti in Francia per la celebrazione dei 100 anni dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale, hanno finito per fare emergere ancora una volta le profonde divisioni che stanno caratterizzando i rapporti tra le grandi potenze del pianeta, così come il rapido manifestarsi di condizioni di crisi che ricordano in buona parte proprio quelle che portarono all’esplosione del conflitto chiuso con l’armistizio dell’11 novembre del 1918.

 

Come sempre è accaduto negli ultimi mesi, è stata la presenza del presidente americano Trump a provocare le scosse maggiori nel fine settimane appena trascorso. Già le manifestazioni di protesta che lo hanno accolto al suo arrivo a Parigi sono apparse altamente simboliche della crescente distanza tra le due sponde dell’Atlantico. Lo stesso inquilino della Casa Bianca ha poi snobbato sia una cerimonia per i caduti di guerra in un cimitero militare non lontano da Parigi sia, soprattutto, un “forum per la pace” organizzato dal presidente francese, Emmanuel Macron, nella giornata di domenica.

 

Le premesse per un evento segnato da gravi tensioni, dietro un’esilissima apparenza di unità nel ricordare il massacro accaduto in Europa un secolo fa, erano state gettate in primo luogo dallo stesso Macron la scorsa settimana. In un’intervista radiofonica, il presidente francese aveva cioè invocato la creazione di un “vero esercito europeo”, in modo che il continente sia in grado di difendersi, in caso di necessità, non solo da paesi come Cina e Russia, ma anche da un’America sempre più ostile agli interessi dei propri alleati.

 

Sull’irrigidimento nei confronti di Washington mostrato da Macron e dagli altri governi europei ha influito, oltre all’indebolimento di Trump sul fronte interno dopo le elezioni di metà mandato, la recente notizia dell’intenzione della Casa Bianca di abbandonare il trattato con la Russia sui missili nucleari di medio raggio (INF). Il crollo dell’impalcatura della sicurezza creata da questo accordo del 1987 costituirebbe infatti una grave minaccia per l’Europa, che tornerebbe a essere esposta al rischio di diventare il campo di battaglia in uno scontro anche nucleare tra Mosca e Washington.

 

Il momento di massima tensione del fine settimana si è registrato probabilmente durante il discorso di domenica di Macron sotto l’Arco di Trionfo a Parigi. Qui, davanti a un Trump seduto a fianco di leader come Angela Merkel e Vladimir Putin, il presidente francese ha pronunciato parole che volevano essere di condanna del “nazionalismo”, definito una tendenza “non patriottica” e contraria ai “valori morali” di qualsiasi paese.

 

Il riferimento è andato immediatamente allo stesso Trump e alla sua agenda riassunta nello slogan “America First”, visto anche che, qualche settimana fa, il presidente USA aveva ammesso esplicitamente di essere un “nazionalista” e di voler perseguire politiche “nazionalistiche”, nonostante negli Stati Uniti questo termine sia stato a lungo associato alle frange estremiste di destra.

 

Il clima di tensione tra gli alleati è comunque alimentato da una serie di fattori esacerbati dall’ingresso di Trump alla Casa Bianca, anche se solo in minima parte dipendenti dalle sue inclinazioni personali. La sempre più aspra guerra commerciale in atto è forse il primo elemento da considerare in un quadro atlantico fatto di interessi ormai in buona parte divergenti. Un altro è la denuncia del trattato sul nucleare iraniano di Vienna del 2015 (JCPOA), abbandonato da Trump già nel mese di maggio, e le sanzioni da poco tornate in vigore contro la Repubblica Islamica.

 

L’attacco formale di Macron contro il nazionalismo è stato poi ripetuto dalla cancelliera tedesca nel corso del già ricordato “forum per la pace” inaugurato domenica dal governo di Parigi. La Merkel ha spiegato che questo fenomeno “sta riguadagnando terreno in Europa e non solo”, anche se, alla luce delle sfide odierne, nessun paese è in grado di agire e di risolvere i problemi per conto proprio.

 

Malgrado l’insistenza sul multilateralismo, sulla necessità di allentare le tensioni internazionali e sull’apertura delle società contemporanee, a cominciare dal fronte economico-commerciale, la retorica ostentata dai leader europei nei giorni scorsi a Parigi continua a trovare poco o nessun riscontro a livello concreto. Le tendenze in atto da questa parte dell’Atlantico vanno anzi in direzione contraria.

 

Da un lato, non ci sono segnali di allentamento delle politiche ultra-liberiste e di austerity, che finiscono per spingere ampie fasce della popolazione nelle mani del populismo di destra. Dall’altro, l’odio xenofobo e la criminalizzazione dell’immigrazione, in parallelo alla promozione di pseudo-valori più o meno apertamente nazionalisti, fanno ormai parte dei programmi di governi anche nominalmente moderati, come appunto quello di Berlino.

 

Le spinte militariste per risolvere i nascenti conflitti sono poi già in atto proprio in Europa, come confermano le recenti dichiarazioni di Macron sulla necessità di un “esercito europeo”, non in funzione difensiva bensì per la promozione degli interessi del capitalismo indigeno, o il ritorno a toni bellicosi e ai progetti di stanziamento di fondi consistenti a favore delle forze armate da parte della classe politica tedesca.

 

Lo stesso discorso di domenica in cui il presidente francese ha condannato il nazionalismo si è risolto in un insieme di tesi contraddittorie e zoppicanti, nel tentativo di distinguere le inclinazioni che caratterizzano il governo Trump da un “patriottismo” sano e portatore di una quasi assoluta moralità.

 

Del carattere fondamentalmente reazionario della classe dirigente europea liberale, che oggi dovrebbe costituire il principale se non l’unico argine alle forze destabilizzanti rappresentate dal governo americano, si era d’altra parte avuto testimonianza poco prima della commemorazione della fine del secondo conflitto mondiale. Visitando uno dei campi di battaglia della guerra, Macron aveva infatti elogiato la figura del maresciallo Philippe Pétain, il leader del regime collaborazionista di Vichy durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

Le parole di Macron avevano giustamente suscitato una valanga di polemiche, ma il numero uno dell’Eliseo era tornato in seguito sull’argomento per ribadire il concetto e definire Pétain “un grande soldato” durante la Prima Guerra Mondiale. I crimini commessi successivamente - dall’ordine di deportare decine di migliaia di ebrei francesi alla collaborazione nell’aggressione nazista al suo irriducibile anti-comunismo - sono stati minimizzati da Macron con la seguente conclusione: “La vita politica, come la natura umana, è talvolta più complessa di quanto si possa pensare”.

 

L’accettazione da parte di Macron di un giudizio sul maresciallo Pétain finora limitato agli ambienti neo-fascisti francesi la dice perciò lunga sulla natura e gli obiettivi di un leader, così come di un’intera classe dirigente, che cerca di porsi pubblicamente come baluardo dei valori della democrazia occidentale.

 

A un secolo dall’epilogo della Grande Guerra, dunque, la crisi del capitalismo internazionale e le rivalità dilaganti per accaparrarsi mercati e risorse continuano a spingere l’Occidente e il resto del pianeta verso scontri e conflitti sempre più gravi, anche tra paesi formalmente alleati, che rischiano, in un futuro forse non troppo lontano, di fare esplodere una nuova conflagrazione dalle conseguenze incalcolabili.

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