La rivista americana Time ha scelto come “Persona dell’anno” 2018 un gruppo di giornalisti di varie nazionalità e una testata americana in segno di riconoscimento dell’importanza e dei pericoli della loro professione in un clima internazionale sempre più pericoloso e oppressivo.

 

Nell’articolo che ha accompagnato la notizia della decisione, la direzione del Time ha anche citato altri reporter costretti a fare i conti con governi autoritari. Tuttavia, la scelta è stata tutt’altro che imparziale o disinteressata, visto che ha deliberatamente tralasciato anche solo di nominare giornalisti perseguitati proprio dal governo degli Stati Uniti, a cominciare dal fondatore di WikiLeaks, Julian Assange.

 

 

A breve, il giornale americano dedicherà quattro copertine diverse ai prescelti, tra cui una a due giornalisti birmani della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, condannati a sette anni di carcere in Myanmar per avere investigato su un massacro di musulmani Rohingya commesso dalle forze di sicurezza del paese del sud-est asiatico. Altre due ritrarranno Maria Ressa, in carcere nelle Filippine per avere documentato l’uccisione di migliaia di persone che il governo del presidente Rodrigo Duterte ha collegato al traffico di droga, e Jamal Khashoggi, giornalista ed ex membro dell’establishment dell’Arabia Saudita assassinato a inizio ottobre nel consolato del suo paese a Istanbul con ogni probabilità su ordine dell’erede al trono, principe Mohammed bin Salman.

 

L’ultima copertina avrà invece come protagonista il giornale Capital Gazette di Annapolis, nello stato americano del Maryland, la cui redazione lo scorso mese di giugno ha perso cinque giornalisti in una sparatoria per mano di un trentottenne che intendeva vendicarsi di una serie di articoli che raccontavano dei suoi guai legali seguiti ad accuse di molestie sessuali.

 

Questi e altri giornalisti, il cui lavoro è in pericolo o è costato loro la libertà se non la vita, sono stati definiti dal Time come “i Guardiani” in una “guerra per la verità”. Tra quelli citati ma non ritratti in copertina ci sono, tra gli altri, un fotografo del Bangladesh, un reporter sudanese, uno brasiliano e il responsabile per l’Asia del Financial Times di stanza a Hong Kong, Victor Mallet.

 

Considerando anche solo i quattro giornalisti individuati per apparire sulla prima pagina del Time, è evidente che la scelta risponde a un’agenda ben precisa, da collegare da una parte agli interessi strategici degli Stati Uniti a livello internazionale e, dall’altra, alla battaglia condotta rigorosamente da destra dalla galassia “liberal” americana, in collaborazione con alcune sezioni dell’apparato di potere di Washington, contro l’amministrazione Trump.

 

Se la sorte di tutti i giornalisti citati dal Time è evidentemente degna di nota e merita di essere ricordata, è significativo come nessuno di essi abbia nel suo curriculum indagini o reportage particolarmente scomodi per il governo americano. Anzi, tutti sono in qualche modo vittime di personalità o istituzioni nel mirino degli Stati Uniti o di una parte della classe dirigente americana.

 

I due reporter birmani della Reuters stanno pagando un prezzo altissimo per avere scritto di una vicenda, quella dei Rohingya, che, pur essendo innegabilmente equiparabile a un vero e proprio genocidio, è stata talvolta cavalcata dall’Occidente e, soprattutto a Washington, per fare pressioni sul regime del Myanmar e sul premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi affinché questo paese si sganci definitivamente dall’alleato cinese.

 

Per quanto riguarda Maria Ressa, ex giornalista della CNN, e le Filippine, è vero che quest’ultimo paese è uno storico alleato degli USA, ma sotto la presidenza Duterte, le cui inclinazioni fascistoidi sono peraltro ben  note, ha intrapreso negli ultimi anni un percorso diplomatico che l’ha portato a rafforzare i rapporti con Pechino e a prendere una certa distanza da Washington.

 

Su Khashoggi, infine, è evidente da settimane lo scontro interno alla classe dirigente americana, con una parte di essa che insiste per punire l’erede al trono saudita, perché considerato il mandante dell’assassinio del giornalista, contro la ferma opposizione della Casa Bianca. Il Time ha fatto quindi una ovvia scelta di campo in questa battaglia, che però non riguarda tanto la libertà di espressione o i valori democratici, quanto l’obiettivo di rinnovare i vertici di una casa regnante saudita il sui comportamento quasi fuori controllo è considerato ormai come un fattore penalizzante per gli interessi degli Stati Uniti.

 

Il riconoscimento della “Persona dell’Anno” 2018 è significativo anche per i nomi che la rivista Time ha preferito non menzionare. Come già ricordato, Julian Assange, cioè il giornalista perseguitato forse più noto del pianeta e certamente quello esposto alla minaccia del governo più potente e pericoloso in assoluto, è stato volutamente escluso. E ciò nonostante solo otto anni fa il 47enne australiano fosse stato tra i principali candidati alla copertina del Time.

 

Avere tralasciato Assange in una pretesa celebrazione della libertà di informazione contro le tendenze repressive dei governi appare ancora più vergognoso se si pensa che solo qualche settimana fa era stata confermata ufficialmente la notizia che il dipartimento di Giustizia americano, tramite un “grand jury” in Virginia, ha da qualche tempo presentato una richiesta di incriminazione per il fondatore di WikiLeaks costretto da sei anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra.

 

La colpa di Assange è in sostanza quella di avere svolto un autentico lavoro giornalistico. Nel concreto, di avere rivelato informazioni riservate sui crimini commessi dal governo, dall’intelligence e dalle forze armate degli Stati Uniti in vari paesi, così come di avere divulgato le e-mail dei vertici del Partito Democratico americano che mostravano un complotto a favore di Hillary Clinton nel corso delle elezioni primarie del 2016.

 

Il calcolo politico dietro alle decisioni del magazine americano è confermato anche dalle osservazioni sullo stato della libertà di stampa negli Stati Uniti. Il Time, dopo avere citato i giornalisti oppressi e minacciati nel mondo, conclude con una denuncia della presunta piaga delle “fake news” in America, puntando il dito contro la proliferazione di notizie alternative sui social network e le cosiddette interferenze della propaganda russa nel dibattito politico USA.

 

In definitiva, cioè, quello che dovrebbe essere un inno alla democrazia e alla libertà dell’informazione si trasforma in una difesa della caccia alle streghe  in corso a Washington e nell’invocazione di metodi di fatto di censura per limitare la diffusione di notizie svincolate dal controllo dei media “mainstream”.

 

La scelta definitiva della “Persona dell’Anno” da parte di Time è coincisa questa settimana infine con la pubblicazione del consueto rapporto del Comitato per la Protezione dei Giornalisti. Nel 2018, l’organizzazione con sede a New York ha individuato 251 reporter imprigionati per il loro lavoro, con una leggera flessione rispetto alla cifra record dello scorso anno (272). Per il terzo anno consecutivo, però, oltre la metà delle detenzioni continuano a essere registrate in soli tre paesi: Turchia (68), Cina (47) ed Egitto (25).

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