Lo stato americano dell’Alabama ha approvato questa settimana in via definitiva una legge contro l’interruzione di gravidanza che è a tutti gli effetti la più estrema, retrograda e crudele mai adottata nella storia degli Stati Uniti. Il provvedimento rende illegale l’aborto senza eccezioni, tranne nei casi in cui si renda necessario per salvare la vita della madre. La legge si offre anche a una valanga di cause legali che, però, gli stessi promotori accoglieranno con favore per raggiungere l’obiettivo di vietare in tutto il paese una pratica tuttora garantita dalla Costituzione americana.

 

 

Mercoledì, la governatrice repubblicana dello stato nel sud degli USA, Kay Ivey, è stata protagonista dello spettacolo degradante di una donna che ha messo la propria firma su una legge che restringe drammaticamente i diritti e le libertà delle donne. Dopo il dibattito nell’assemblea statale dell’Alabama, erano state cancellate dalla legge anche le possibili eccezioni alla pratica dell’aborto in caso di stupro e incesto.

 

Coloro che hanno approvato la misura necessitavano d’altra parte di un testo coerente che, basandosi su principi religiosi ultra-reazionari, assegna lo status di “persona” al feto fin dal momento del concepimento. Ciò implica che le donne che ricorreranno all’aborto potrebbero essere incriminate di omicidio, malgrado la legge non indichi esplicitamente questa ipotesi, così come non sono da escludere denunce in caso di pratiche, durante la gravidanza, ritenute pericolose o dannose per il feto. Chiarissimi sono invece i rischi per i medici che praticheranno aborti. Per loro sono previste pene fino a 99 anni di carcere e 10 anni solo per avere cercato di praticare un aborto.

 

La nuova legge dello stato dell’Alabama è palesemente anti-costituzionale, dal momento che nega un diritto fissato dalla Corte Suprema USA nel 1973 con la sentenza nel caso “Roe contro Wade”. Inoltre, essa si fonda su un principio religioso, come confermano i ripetuti riferimenti a “Dio” dei promotori e dei membri del parlamento favorevoli, che viola apertamente il Primo Emendamento della Costituzione americana.

 

Quanto sta accadendo in Alabama è il risultato di un’ondata di legislazioni introdotte negli ultimi mesi in vari stati per ridurre ulteriormente l’accesso all’interruzione di gravidanza. Solo quest’anno, in Indiana è stata approvata una legge che vieta l’aborto a partire dal secondo trimestre. Ancora più pesanti sono quelle di Ohio, Georgia, Kentucky e Mississippi, dove la pratica sarà impossibile dopo la sesta settimana dal concepimento, quando cioè risulta presumibilmente possibile rilevare il battito cardiaco del feto, anche se molte donne non sanno o non hanno ancora la certezza di essere incinte. In un’altra decina di stati, tutti governati dal Partito Repubblicano, sono in discussione leggi simili, tra cui in Texas, ovvero lo stato con il maggior numero di esecuzioni capitali, dove per l’aborto potrebbe essere addirittura rimossa l’eccezione finora prevista dalla definizione di omicidio.

 

La legge contro l’aborto dell’Alabama e quelle appena meno estreme di altri stati sono e saranno oggetto di cause legali da parte di organizzazioni a difesa dei diritti civili e di cittadini privati. In molti casi, visto il già ricordato precedente della Corte Suprema che garantisce il diritto all’aborto, i tribunali non avranno altra scelta che bloccare le leggi in questione.

 

Tuttavia, l’intenzione degli anti-abortisti americani è precisamente quella di provocare cause e denunce, in modo da spingere alla fine la stessa Corte Suprema a esprimersi sul diritto all’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti. La prospettiva di un possibile ribaltamento del precedente del 1973 non è mai stata così concreta. Infatti, l’arrivo alla Corte dei due giudici nominati dal presidente Trump, gli ultra-conservatori Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, garantisce una solida maggioranza di destra che, per molti, potrebbe intervenire su una delle questioni più controverse degli ultimi decenni.

 

Soprattutto la nomina di Kavanaugh è stata cruciale. Questo giudice ha sostituito lo scorso anno il “centrista” Anthony Kennedy, il quale si era quasi sempre schierato moderatamente a favore del diritto all’aborto, giungendo anche a scrivere la sentenza nel caso “Planned Parenthood contro Casey” del 1992 che, pur fissando alcune restrizioni, ne confermò la costituzionalità.

 

Per qualcuno, questo approccio così radicale potrebbe però risultare controproducente. La Corte Suprema, secondo questa interpretazione, non sarebbe pronta a cancellare interamente il diritto all’aborto e a lasciare mano libera ai singoli stati per regolare la questione. Il voto decisivo in un eventuale caso all’attenzione del supremo tribunale americano potrebbe essere quello del presidente della stessa Corte, John Roberts. Quest’ultimo è di tendenze inequivocabilmente reazionarie, ma già in più di un’occasione su temi di ampia portata si è schierato con la minoranza “liberal”, tanto che non sono pochi a ritenere che anche sull’aborto potrebbe fare lo stesso.

 

Un articolo di questa settimana del New York Times ha spiegato che, malgrado gli “impulsi contrastanti”, il giudice Roberts potrebbe privilegiare “la legittimità istituzionale della Corte”, sacrificando perciò “gli interessi dei conservatori” sulla questione dell’aborto. In altri termini, una sentenza che bandisca tout court l’interruzione di gravidanza a livello federale costituirebbe una macchia indelebile per la Corte Suprema agli occhi di decine di milioni di americani. Tanto da delegittimare ancora di più un tribunale che, almeno da due decenni, ha già evidenziato una netta inclinazione a favore dei grandi interessi economici, delle forze dell’ordine e dei poteri dell’esecutivo a discapito dei diritti democratici individuali.

 

Il futuro del diritto all’aborto per le donne americane non appare ad ogni modo roseo. Se pure la Corte Suprema dovesse lasciare intatto il principio finora garantito costituzionalmente, il percorso scelto dai cinque giudici conservatori potrebbe comunque finire per restringere le possibilità di accesso. Questa tattica è stata d’altra parte già ampiamente usata dalla Corte e si traduce in primo luogo nella conferma della legalità di misure per così dire di “contorno” adottate da vari stati americani.

 

In molti casi, cioè, pur riconoscendo formalmente il diritto all’aborto, si sono approvate leggi che mettono dei paletti assurdi e artificiosi, come ad esempio l’imposizione alle strutture che lo praticano di obblighi burocratici e strumentali tipici dei grandi ospedali. Oppure l’obbligo fatto ai medici abortisti di avere la facoltà, in caso di emergenza, di ordinare l’eventuale ricovero negli ospedali più vicini per le donne che intendono interrompere la gravidanza. Quest’ultimo scrupolo risulta in larga misura superfluo, poiché i casi di aborto con complicazioni sono molto rari e, soprattutto, gli ospedali americani hanno già l’obbligo di fornire a chiunque prestazioni di emergenza.

 

Lo scontro sull’aborto negli Stati Uniti e il rischio della perdita di questo diritto si inquadrano in uno scenario dove già risulta difficile per le donne decidere liberamente del proprio corpo e del proprio futuro. In molti stati americani, le strutture che praticano aborti sono in continua diminuzione, tanto che in sei di essi – Kentucky, Mississippi, Missouri, North Dakota, South Dakota e West Virginia – è rimasta una sola clinica a garantire le interruzioni di gravidanza.

 

L’aborto non è infine incluso nemmeno nelle prestazioni offerte dai programmi sanitari pubblici, come Medicaid, o sovvenzionati dal governo federale, come i piani assicurativi previsti dalla “riforma” di Obama, a causa principalmente della continua sottomissione del Partito Democratico americano alla destra religiosa e alle sue battaglie reazionarie e incostituzionali.

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