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Per leggere con onestà il risultato dei referendum bisogna partire da una premessa: è stata una sconfitta e tutt’altro che trascurabile; non per le proporzioni in sé ma perché sui temi proposti era ragionevole attendersi un coinvolgimento maggiore da parte di elettori che, per un verso o un altro, incrociano almeno una volta nella loro esistenza i temi sottoposti a giudizio referendario. Dunque tanta astensione significa, una volta di più, che la disaffezione dalle urne certifica il grado di sfiducia per mancanza di credibilità ed affidabilità verso una classe dirigente. Tutta, non solo quella dei promotori: seppure la destra avesse indetto un identico referendum con opposta proposta, il risultato dell’adesione popolare sarebbe stato identico o giù di lì.

Si può certamente leggere il voto con un rito consolatorio, che annota i 15 milioni di italiani che hanno votato, tre in più di quelli che hanno fatto vincere la Meloni mettendola in condizioni di formare un governo che, per contenuti ed esponenti, farebbe vergognare qualunque altro Paese. Basti ricordare che Meloni governa con il 26% dei voti grazie ad una legge elettorale voluta dal PD renziano, denominata Rosatellum. In un tribunale la si potrebbe chiamare “sentenza suicida”, ma ci si trova nell’alveo politico istituzionale ed è opportuno definirla un grossolano errore, ammesso che tale sia stato. Si potrebbe infatti sostenere che sia stata una voluta operazione politica funzionale a garantire un ruolo determinante di un gruppo dirigente politicamente corrotto, che dirigeva il partito della sinistra e dei lavoratori legiferando per far vincere la destra e nell’interesse del padronato e delle banche.

Nella sconfitta referendaria ci sono due aspetti chiave: il primo è la mancanza di fiducia in un centro-sinistra che possa superare la destra sulle politiche economiche e sociali e sul posizionamento internazionale. Dal governo Monti (2011)a quello Meloni (2022) a Palazzo Chigi si sono alternati Letta, Renzi, Gentiloni (senza che avessero mai vinto un elezione) e poi Conte 1 e 2, per concludere con il raccomandato in grembiulino e compasso con amici potenti ma senza voti come Draghi. Undici anni nei quali i promotori dei Referendum hanno governato senza fare quello che chiedono ora alla Meloni (legge sul salario minimo) e scrivendo le leggi che ora, all’opposizione, vogliono cancellare (jobs act).

Ma gli elettori, prima di correre dietro a incoerenze ed illusioni, largo o meno che sia il campo dove si gioca, utilizzano il buon senso e riconoscono il paradosso. Menzione a parte la merita la CGIL, convitato di pietra della legislazione giuslavorista del partito di riferimento e palestra di sordomutismo prima e di disabilità poi nella mobilitazione del mondo del lavoro a difesa dei suoi interessi. Succede, del resto, che se il sindacato dimentica la classe, la classe dimentica il sindacato ed appare poi inutile darsi una riverniciata di conflittualità sociale fuori tempo massimo. Soprattutto quando la superstizione dell’unità sindacale è stato il paravento dell’acquiescenza degli ultimi 30 anni.

Il secondo è che, paradossalmente, il PD ha chiesto la fine di una legge (il jobs act) che esso stesso ha imposto per arruffianarsi il mondo delle imprese. Ma divenire la succursale italiana del Partito Democratico statunitense, sposando dalla politica economica a quella sociale, da quella fiscale a quella internazionale gli interessi del capitalismo ultraliberista internazionale e facendosi interpreti del pensiero unico delle élites liberali, produce un fastidio epidermico. Si percepisce, insomma, come se il PD fosse ancora al governo, non proporrebbe la legge sul salario minimo e non abolirebbe il jobs act.

Il terzo è argomento spinoso ma dovrà pur essere affrontato: si riferisce al voler tenere per forza una questione di cultura giuridica sul tema migratorio e sulle politiche di accoglienza insieme a quesiti che certo indirettamente lo riguardano (basti pensare allo sfruttamento della mano d’opera immigrata e sans papiers che ha costruito il famoso miracolo del Nord-Est e che sostiene le politiche agricole nel Centro-Sud). Ma se non ci si vuole prendere in giro e far finta che il Paese sia un altro, non si può ignorare come il tema dell’accoglienza sia fortemente divisivo anche a sinistra e come metterlo nella stessa tornata elettorale avrebbe drenato e non aumentato l’adesione e i consensi, come i numeri relativi hanno dimostrato. E poi nessuno dimentica i difensori dell’accoglienza dei migranti ovunque meno che a Capalbio.

C’è infine un aspetto tecnico non irrilevante, che riguarda la bulimia referendaria che i Radicali hanno diffuso e che ormai ha stancato tutti. A maggior ragione quando i referendum sono molti e nella stessa giornata, con la convinzione errata che la somma degli interessi particolari di tanti segmenti della società portino al quorum.

Porre il pronunciamento popolare diretto su temi che poi possono essere aggirati col tempo, visto che il Referendum è di natura abrogativa ma non inibisce la successiva iniziativa legislativa sulla materia (es. il nucleare), ha reso uno strumento di espressione diretta e politica dal basso un rito che viene poi manovrato dall’alto. Quello di abolire il quorum sarebbe un passo importante, per associarlo alle altre elezioni, dove la soglia minima non è prevista. Meglio ancora, per la democrazia, sarebbe altrimenti istituire per le elezioni politiche il quorum elettorale come per Referendum. Sarebbe forse la prima e migliore riforma elettorale.

Queste brevi considerazioni non vogliono comunque sorvolare a volo radente la questione della politica e della democrazia partecipativa di tipo popolare, che nulla c’entra con quella che conosciamo. Certo la questione, nell’immediato, attiene al rapporto tra eletti ed elettori e all’assenza di strumenti di verifica del governo eletto, come il middle term negli USA o il referendum revocativo in Venezuela (per dire di due sistemi opposti che prevedono però un check elettorale di medio termine con conseguenze concrete sul governo in carica).

Resta, sullo sfondo, la questione delle questioni, ovvero l’assenza di una Sinistra, con una nuova ridefinizione del suo impianto ideale e di una sua nuova teoria e prassi della trasformazione. Quelli capaci di pensarla, in uno sforzo collettivo, sono tenuti fuori dalle stanze in cui un ceto politico residuale senza spessore si spartisce ruoli senza decenza alcuna. Nell’attesa, assistiamo inermi alla più grande vittoria del capitalismo, che consiste nell’aver convinto gli sfruttati e i senza diritti che la loro condizione è colpa di chi è più povero di loro e che i padroni generano lavoro e non i loro profitti. Trasformare il cuore dello sfruttamento nel fiore all’occhiello della filantropia è la ipnosi ideologica che fa da sfondo a questo Paese dalla quale nessuno sembra volersi svegliare.