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In parallelo e con molti punti in comune al cosiddetto “Russiagate”, negli Stati Uniti è in corso ormai da qualche tempo una nuova caccia alle streghe che sta mietendo vittime con cadenza quasi giornaliera, facendo emergere improvvisamente accuse di molestie sessuali vere o presunte contro personalità spesso molto note della politica, dei media e dello spettacolo.

 

 

Senza nulla togliere alla gravità degli episodi denunciati, ancorché quasi sempre tutt’altro che dimostrati in maniera incontrovertibile, i livelli di isteria raggiunti dalla campagna in atto sulla stampa americana impongono come minimo un’estrema cautela nel giungere a conclusioni definitive.

 

Quasi come un’operazione programmata a tavolino, la valanga di accuse era iniziata com’è noto qualche settimana fa con il caso del produttore “indipendente” di Hollywood, Harvey Weinstein, trasformato in pochi giorni in un autentico mostro dalle ormai incalcolabili denunce di attrici o aspiranti tali.

 

Dopo Weinstein è toccato ad altre star più o meno note al di fuori dei confini americani, fino al coinvolgimento dell’attore premio Oscar, Kevin Spacey. La catastrofe personale e professionale di quest’ultimo è stata probabilmente accelerata dalla decisione di dichiarare la sua omosessualità nella stessa dichiarazione pubblica in cui si scusava con il suo primo accusatore, l’attore Anthony Rapp, per fatti accaduti oltre trent’anni fa e dei quali Spacey ha sostenuto di non avere memoria.

 

In rapida sequenza sono arrivate poi accuse anche contro uomini politici di spicco. Clamorosa è stata la vicenda dell’ex giudice ultra-conservatore Roy Moore, candidato del Partito Repubblicano a un seggio del Senato di Washington per lo stato dell’Alabama. Moore è legato agli ambienti del fondamentalismo cristiano, ma, nel corso della campagna elettorale in vista dell’elezione speciale del prossimo dicembre, è stato accusato di abusi sessuali da alcune donne, alcune delle quali erano minorenni all’epoca dei fatti.

 

Sull’aspirante senatore repubblicano si è subito scagliata tutta la classe politica americana, compresi i leader del suo partito che, finora senza successo, gli hanno chiesto di abbandonare la corsa al seggio lasciato vacante dal ministro della Giustizia di Trump, Jeff Sessions.

 

Anche nel Partito Democratico non sono mancate le grane, visto che poco dopo quelle relative a Roy Moore sono emerse rivelazioni sul senatore del Minnesota ed ex comico, Al Franken. Il 16 novembre scorso, la giornalista e modella Leeann Tweeden aveva scritto che, nel 2006, durante le prove di un numero comico il futuro senatore aveva cercato di baciarla contro la sua volontà. Poco dopo era apparsa anche un’immagine di Franken che, a bordo di un aereo, posava le mani sul seno della stessa donna mentre era addormentata.

 

Il senatore democratico, oltre a pronunciare le scuse di rito, ha accettato di rimettere la sua condotta alla commissione Etica della camera alta del Congresso USA. A inizio settimana, però, le pressioni su di lui sono aumentate dopo che la CNN ha riportato il racconto di una donna che ha accusato Franken di averla toccata in maniera inopportuna mentre i due posavano per una fotografia durante una fiera in Minnesota nel 2010. Sia Moore che Franken stanno cercando di conservare le rispettive posizioni, ma il susseguirsi di accuse e “rivelazioni” e il clima venutosi a creare negli Stati Uniti non prospettano nulla di buono per la carriera politica di entrambi.

 

Nel vortice di denunce sono stati trascinati lunedì anche l’attore Jeffrey Tambor, vincitore di Emmy e Golden Globe, il giornalista del New York Times, Glenn Thrush, e il notissimo conduttore televisivo di PBS e CBS, Charlie Rose. Martedì, inoltre, è finito nella bufera il veterano deputato democratico John Conyers, dopo che il sito BuzzFeed ha scritto che nel 2015 quest’ultimo aveva concordato un risarcimento con una donna del suo staff licenziata per avere “respinto le sue avances sessuali”.

 

Nel caso di Thrush, singolarmente, a finire vittima delle accuse è un reporter del giornale, il Times appunto, che forse più di tutti gli altri è in prima linea nella campagna contro le molestie sessuali. Tambor e Rose si sono scusati con le loro accusatrici, mettendo però pacatamente in discussione le ricostruzioni dei fatti che li avrebbero visti nel ruolo di assalitori. Entrambi hanno poi accettato la sospensione o la cancellazione dei loro impegni lavorativi. Anzi, Tambor ha annunciato egli stesso la decisione di dare l’addio allo show televisivo a cui stava partecipando, visto il clima divenuto troppo “politicizzato” per consentire la sua permanenza sul set.

 

La remissione di Tambor e Rose, malgrado la loro parziale smentita delle versioni delle presunte vittime, è dovuta al crearsi di una dinamica secondo la quale ogni accusa di molestie sessuali viene subito amplificata dai media, indipendentemente dall’attendibilità, scatenando un coro di condanne e mettendo i presunti responsabili in una situazione insostenibile che fa di loro dei veri e propri paria.

 

In questo processo, gli accusati perdono di fatto il diritto alla presunzione di innocenza e le loro carriere, se non le loro vite, sono virtualmente distrutte nell’arco di poche ore, senza che i crimini presumibilmente commessi siano provati in un’aula di tribunale o che sia data loro almeno la possibilità di confrontarsi o contestare le accusatrici. E il fatto che a essere coinvolti siano personaggi famosi, ricchi, potenti o reazionari non attenua in nessun modo la minaccia ai diritti democratici insita in questo meccanismo.

 

L’altro aspetto da considerare nel fermento che anima i media americani è il tempismo delle accuse che stanno emergendo una dopo l’altra, alla luce soprattutto del fatto che il verificarsi di comportamenti sessualmente abusivi nell’ambito politico o dello spettacolo non è un fenomeno nuovo né sconosciuto, negli Stati Uniti come altrove. In questo senso, è interessante ricordare come la campagna in atto contro qualsiasi indizio di molestie stia avvenendo in parallelo, da un lato, alla caccia alle streghe dall’impronta maccartista contro la presunta interferenza russa nel processo politico americano e, dall’altro, alla costante promozione, soprattutto negli ambienti “liberal”, delle questioni di razza e di genere.

 

Il collegamento tra queste tendenze è confermato dal fatto che in prima fila nella conduzione di tutte le campagne appena descritte ci sono gli stessi ambienti politici e giornalistici, riconducibili in gran parte, anche se non esclusivamente, al Partito Democratico e a testate come New York Times e Washington Post. Da un’altra prospettiva, i dubbi sulla legittimità democratica della crociata anti-abusi sessuali in atto sono alimentati dai precedenti di questi giornali, per non parlare dei politici, impegnati a giustificare interventi militari criminali, dall’Iraq alla Libia alla Siria, a fomentare lo scontro tra Washington e Mosca, con il rischio di una guerra nucleare, e a sollecitare l’imposizione di metodi di censura.

 

In definitiva, l’umiliazione, la criminalizzazione preventiva e la vera e propria distruzione di quanti vengono accusati di comportamenti sessualmente inappropriati rientrano in una strategia anti-democratica che è riconducibile agli sforzi della classe dirigente americana per confondere l’opinione pubblica e distoglierne l’attenzione dalle questioni sociali esplosive che agitano la società di questo paese.

 

Una simile conclusione nulla toglie ovviamente al diritto e alla necessità di combattere ogni forma di abuso sessuale, peraltro legato in gran parte alla natura delle relazioni personali e professionali nel quadro del capitalismo odierno. Una questione, quest’ultima, che in ogni caso non rientra negli interessi dei promotori della campagna moralizzatrice in corso.

 

Non solo, scandali e comportamenti sessuali condannabili sono infine il terreno sul quale vengono tradizionalmente regolati i conti all’interno delle élites politiche ed economiche, negli Stati Uniti come in altri paesi. Anche in questo caso, com’è evidente, l’apparente denuncia degli abusi non ha nulla di democratico.

 

Forse a conferma di ciò, negli ultimi giorni è riemersa anche la vicenda che due decenni fa coinvolse Bill Clinton. Proprio un paio di commenti apparsi sul New York Times hanno sostenuto che, alla luce del comportamento nei confronti di Monica Lewinsky, l’allora presidente democratico avrebbe dovuto essere costretto alle dimissioni.

 

In altre parole, la battaglia tutta politica del procuratore speciale incaricato di indagare sul caso, Kenneth Starr, viene ora in definitiva riabilitata e considerata legittima, nonostante, in realtà, non sia stata altro che un tentativo, promosso da forze ultra-reazionarie, di rimuovere dal proprio incarico un presidente democraticamente eletto.