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Dopo il sorprendente successo nelle elezioni di sabato scorso in Iraq, il leader politico e religioso sciita Moqtada al-Sadr, ha iniziato in questi giorni le trattative con gli altri principali partiti per la possibile formazione del nuovo governo del paese mediorientale. Grazie a un programma populista e nazionalista che ha sfruttato abilmente l’ostilità degli iracheni per la classe politica indigena, Sadr e la sua variegata coalizione hanno ottenuto la maggioranza relativa dei seggi in palio, creando non pochi grattacapi alle potenze con la maggiore influenza sulle dinamiche politiche di Baghdad, ovvero l’Iran e gli Stati Uniti.

 

 

L’alleanza “Sairoon” guidata da Sadr include il Partito Comunista iracheno, ma anche attivisti sciiti ed esponenti secolari della borghesia sunnita. La creazione di questo gruppo apparentemente eterogeneo risale al 2016, in concomitanza con l’esplosione di un movimento di protesta popolare, cavalcato dai sadristi, contro la corruzione endemica della classe politica e le disastrose condizioni di vita della maggioranza della popolazione.

 

Sulla lotta alla corruzione e alle pratiche clientelari, sull’opposizione alle divisioni settarie e sulla necessità di creare un governo composto di “tecnici” competenti invece che di politici si è basata la campagna elettorale di Sadr, con un appello efficace alle fasce più disagiate della popolazione. I quartieri poveri di Baghdad e delle altre principali città irachene hanno così premiato largamente l’alleanza “Sairoon”, in grado alla fine di conquistare circa 1,3 milioni di voti e 54 seggi in parlamento sui 329 totali.

 

Il successo dei sadristi e dei loro partner di coalizione è arrivato in primo luogo a spese dell’attuale primo ministro, Haider al-Abadi, e della sua alleanza “al-Sadr”, ferma al terzo posto con 39 seggi. Dopo la drammatica avanzata dello Stato Islamico (ISIS) in territorio iracheno nel 2014, Abadi era stato promosso alla guida del governo su pressioni americane e al posto di Nouri al-Maliki, considerato troppo vicino all’Iran.

 

Il suo tentativo di capitalizzare i successi militari contro l’ISIS non ha avuto particolare successo, mentre decisamente migliore è stata la performance dell’ala politica delle milizie sciite filo-iraniane – “Al-Fatah” – di Hadi al-Amiri, protagoniste assolute della guerra contro il cosiddetto “califfato”. Questa formazione è ora la seconda forza politica irachena con 45 seggi e sarà il principale garante degli interessi di Teheran nel paese, indipendentemente dalla sua eventuale partecipazione al prossimo governo.

 

Tra le altre forze con il maggior numero di voti, quella dell’ex premier Maliki – “Stato di Diritto” – ha ottenuto il quarto posto con 25 seggi. Il risultato deludente di quest’ultimo e del suo successore Abadi indica dunque una crescente frustrazione nei confronti dell’establishment politico iracheno. Frustrazione evidente anche dall’affluenza più bassa mai registrata nell’epoca post-Saddam. I votanti sono stati poco più del 44%, contro il 60% del 2014 e, addirittura, il 79% del 2005.

 

Nonostante la modesta prestazione, Abadi sembra avere più di una chance di essere riconfermato alla guida del paese, anche se in un governo fortemente influenzato da Sadr, il quale, da parte sua, non può ambire alla carica di primo ministro perché non candidatosi alle elezioni. Prima e dopo il voto di sabato, quest’ultimo ha manifestato la disponibilità della sua coalizione a trovare un accordo di governo con il primo ministro, così come con due formazioni sunnite e un partito curdo.

 

Nella giornata di martedì, lo stesso Sadr avrebbe avuto un colloquio telefonico cordiale con Abadi e con i leader del Partito Democratico del Kurdistan.

I rapporti tra i sadristi e le alleanze sciite di Amiri e Maliki sono invece decisamente freddi, a causa dell’appoggio esplicito dell’Iran a questi ultimi. Le relazioni di Moqtada al-Sadr con la Repubblica Islamica non sono peraltro univoche. Dopo avere guidato i suoi seguaci, inquadrati nel cosiddetto esercito “Mahdi”, contro gli occupanti americani ed essere stato al centro della sanguinosa guerra settaria seguita all’invasione degli Stati Uniti, nel 2006 Sadr era fuggito in Iran. Nella città di Qom si era dedicato senza troppo successo agli studi religiosi e, una volta tornato in patria, avrebbe denunciato l’influenza di Teheran sull’Iraq.

 

Coerentemente con le sue inclinazioni nazionaliste, Sadr è ugualmente critico degli USA e delle politiche di Washington in Medio Oriente. Considerando anche le sue divergenze con i vertici del clero sciita iracheno sul ruolo dell’Iran in Siria, è in ogni caso plausibile che l’amministrazione Trump cerchi di promuovere un’intesa tra Sadr e Abadi per il nuovo governo di Baghdad. Una soluzione di questo genere appare probabilmente la più opportuna per gli Stati Uniti, alla luce sia dei risultati del voto di sabato scorso sia dell’accelerazione anti-iraniana impressa dalla Casa Bianca dopo la denuncia dell’accordo di Vienna sul nucleare.

 

Anche per la Repubblica Islamica, l’inatteso epilogo del voto richiederà un ricalibramento delle politiche per la promozione dei propri interessi in Iraq. Tanto più che, qualche settimana prima delle elezioni, uno dei più influenti consiglieri dell’ayatollah Khamenei, Ali Akbar Velayati, aveva affermato pubblicamente che Teheran non avrebbe permesso “a liberali e comunisti” di governare l’Iraq, con un chiaro riferimento all’alleanza sadrista.

 

Che USA e Iran continueranno ad adoperarsi per mantenere il controllo su Baghdad è comunque scontato. L’atteggiamento cauto e gli sforzi per bilanciare i rapporti con le due potenze del governo Abadi risulteranno sempre più complicati, anche se il premier in carica dovesse conservare la sua posizione. Il conflitto tra Washington e Teheran si sta infatti aggravando in seguito al prevalere dei “falchi” all’interno dell’amministrazione Trump, così che l’Iraq rischia di essere trascinato in una nuova guerra sanguinosa fomentata dagli Stati Uniti in Medio Oriente.

 

Gli scenari politici iracheni appaiono ad ogni modo molto fluidi dopo il voto e, a causa anche delle quote relativamente ridotte di seggi ottenuti dalle principali formazioni, i negoziati per la formazione del nuovo governo richiederanno con ogni probabilità parecchie settimane, con possibili effetti destabilizzanti su una situazione politica e sociale già precaria.

 

Sulle trattative influiranno poi inevitabilmente le pressioni esterne. A conferma di ciò, in questi giorni si sono già attivati i rappresentanti dei governi di USA e Iran. Secondo la stampa occidentale, il comandante dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, generale Qassem Soleimani, e l’inviato speciale di Washington per la “coalizione” anti-ISIS, Brett McGurk, hanno incontrato lunedì a Baghdad alcuni leader politici iracheni.

 

Tra di essi figurerebbero il premier Abadi e il filo-iraniano Hadi al-Amiri, ma non, almeno per il momento, Moqtada al-Sadr, cioè la figura di fatto più importante nei nuovi equilibri determinati in Iraq dal risultato delle urne.