L’arresto in Canada del direttore finanziario del colosso cinese delle telecomunicazioni, Huawei, ha avuto tutte le caratteristiche di un vero e proprio sequestro di persona orchestrato da Washington e minaccia di far saltare in maniera prematura una già fragilissima tregua sulle questioni commerciali e della proprietà intellettuale tra le prime due potenze economiche del pianeta.

 

In seguito al fermo nella città di Vancouver durante uno scalo per il Messico della manager Meng Wanzhou, figlia del fondatore e numero uno di Huawei, Ren Zhengfei, il ministero degli Esteri cinese ha nel fine settimana convocato gli ambasciatori di USA e Canada ai quali è stata espressa la “ferma protesta” del governo di Pechino. Tramite il vice-ministro degli Esteri, Le Yucheng, la Cina ha chiesto al Canada l’immediata scarcerazione della “chief financial officer” di Huawei, così come agli Stati Uniti di revocare la loro richiesta di arresto e di estradizione.

 

 

Il diplomatico cinese ha parlato di “gravi conseguenze” per il comportamento dei due paesi nordamericani, mentre la stampa ufficiale non ha risparmiato pesanti critiche contro l’iniziativa canadese-americana. Il Quotidiano del Popolo, ad esempio, ha invitato Washington e Ottawa a “non sottovalutare la sicurezza, la determinazione e la forza” della Cina nel mettere in atto ritorsioni per l’arresto della dirigente. La Corte Suprema dello stato canadese del British Columbia ha iniziato domenica le udienze per una possibile scarcerazione dietro cauzione di Meng Wanzhou e la sua sorte potrebbe essere decisa a breve.

 

Oltre al fortissimo valore simbolico del provvedimento deciso dalla magistratura canadese, ad avere avuto un impatto particolarmente pesante è stato il tempismo dell’arresto, avvenuto nel giorno stesso in cui il presidente americano Trump e quello cinese, Xi Jinping, erano a colloquio a Buenos Aires, nel corso del G-20, per cercare di allentare le tensioni generate dalla guerra commerciale lanciata dalla Casa Bianca.

 

L’accordo uscito da quell’incontro del primo dicembre era apparso subito di natura incerta, vista sia la diversa lettura data a esso dai due governi sia la quasi certa impossibilità per la Cina di soddisfare le richieste americane, oltretutto in appena 90 giorni. L’arresto di Meng Wanzhou rende ora il clima ancora più teso e a poco sono servite le dichiarazioni di alcuni esponenti di governo negli USA sull’assenza di collegamenti tra questa vicenda e quella dei negoziati bilaterali in corso.

 

A un’analisi immediata, la provocazione americana con la collaborazione del governo di Ottawa è l’ennesima conferma dell’utilizzo da parte di Washington di sanzioni economiche e finanziarie come un’arma unilaterale nel perseguimento dei propri interessi a livello internazionale. L’accusa sollevata contro la manager cinese e la sua azienda è quella di avere sfruttato una compagnia di Hong Kong tra il 2009 e il 2014 per fare affari con l’Iran nell’ambito delle telecomunicazioni e aggirare così le restrizioni imposte dagli Stati Uniti.

 

La violazione delle sanzioni USA contro la Repubblica Islamica, sospese dopo l’accordo di Vienna sul nucleare e tornate in vigore solo di recente, era già stata contestata a numerosi individui e compagnie di vari paesi nel recente passato. Lo scopo era ed è invariabilmente quello di intimidire i governi e la comunità del business per scoraggiare scambi commerciali con l’Iran e isolare sia economicamente sia politicamente questo paese.

 

Il caso di Huawei e del suo direttore finanziario, rinchiusa in un carcere canadese, porta tuttavia il gangsterismo americano a un livello decisamente diverso, non solo per le accuse che, se accettate da un tribunale, potrebbero portare a una condanna di svariati decenni. L’arresto eccellente è infatti solo l’ultima iniziativa che punta nientemeno che a ostacolare lo sviluppo tecnologico di un intero paese, attraverso una serie di attacchi a compagnie - come Huawei ma non solo - che giocano un ruolo chiave a livello planetario e che rappresentano una serissima minaccia alla supremazia del capitalismo americano.

 

Come è stato spiegato in molte analisi nei giorni scorsi, l’accusa di avere contravvenuto alle sanzioni contro l’Iran è un pretesto per colpire Huawei e, in particolare, il primato di questa compagnia nello sviluppo della tecnologia wireless 5G. In questo ambito, Huawei ha investito circa 600 milioni di dollari nell’ultimo decennio e prevede di investirne a breve altri 800. Questo impegno le ha permesso di essere ad oggi l’unico soggetto in grado di realizzare tutti gli elementi di una rete 5G.

 

Ciò ha fatto in modo che Huawei diventasse partner di numerose compagnie di telecomunicazione nazionali nello sviluppo di questa tecnologia, anche se negli ultimi tempi le pressioni statunitensi hanno convinto più di un governo a bandire il gigante cinese, come hanno fatto, tra gli altri, quelli di Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda. La stessa amministrazione Trump nei mesi scorsi aveva ordinato al Pentagono di interrompere la vendita di smartphone e altri dispositivi Huawei all’interno delle proprie basi militari, mentre le agenzie governative e le aziende appaltatrici dovranno rinunciare a qualsiasi strumento tecnologico di fabbricazione cinese.

 

Che la violazione delle sanzioni contro l’Iran sia solo un pretesto per colpire Huawei e la Cina è stato confermato in genere anche dai commenti dei media sostanzialmente favorevoli all’arresto della top manager cinese. I politici americani, poi, hanno mostrato poche o nessuna riserva nel collegare l’evento alla minaccia che rappresenterebbe la Cina e le sue principali compagnie tecnologiche. Il senatore repubblicano Marco Rubio ha ad esempio annunciato una proposta di legge per escludere del tutto dal mercato americano Huawei e altre aziende cinesi, definite come “una minaccia ai nostri interessi economici e a quelli della sicurezza nazionale”.

 

In definitiva, come conferma il caso di Meng Wanzhou, il modus operandi del governo americano è quello di imporre misure punitive unilaterali e, spesso, contrarie al diritto internazionale contro quei paesi percepiti come una minaccia ai propri interessi. In seguito, Washington intima ad alleati e nemici il rispetto di queste stesse sanzioni, perseguendo con metodi ricattatori coloro che le violano, in modo da scoraggiare eventuali comportamenti che facciano intravedere una qualche resistenza alla linea imposta dalla Casa Bianca.

 

Da collegare a questo aspetto è anche un altro, evidenziato qualche giorno fa dal blog Moon of Alabama. Huawei è cioè nel mirino dell’apparato militare e di intelligence degli Stati Uniti in primo luogo perché, essendo una compagnia cinese legata al governo di Pechino, sfugge al controllo americano e, a differenza di quelle tecnologiche e delle comunicazioni indigene, sfugge a ipotesi di collaborazione nelle attività di sorveglianza dei propri utenti messe in atto dalle agenzie governative USA.

 

In sostanza, gli attacchi contro Huawei vengono presentati ufficialmente come una battaglia per impedire che la presenza di questa compagnia in paesi come gli Stati Uniti favorisca le attività di spionaggio della Cina, mentre in realtà essa è presa di mira perché rende più difficile la penetrazione e il controllo delle comunicazioni di massa da parte dell’intelligence americana.

 

Tutto lascia intendere, in ogni caso, che l’escalation contro Huawei debba proseguire e che l’obiettivo sia quello di tagliare fuori completamente la compagnia dal proprio business con gli USA, non solo in termini di vendite e partnership ma anche e, forse, soprattutto di acquisti. Una buona parte dei fornitori di Huawei sono infatti americani, come Intel, Oracle o Microsoft, e, secondo alcuni osservatori, l’impossibilità di reperire hardware e software dagli Stati Uniti potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza stessa del colosso cinese.

 

Un altro risvolto della detenzione di Meng Wanzhou contribuisce infine a complicare lo scontro tra USA e Cina e a smentire la versione che vorrebbe questa rivalità solo come una conseguenza dell’attitudine di Trump o delle tendenze ultra-nazionaliste di una parte del suo entourage. Una rivelazione del New York Times aveva cioè spiegato come lo stesso presidente americano fosse stato tenuto all’oscuro dell’arresto della manager di Huawei, nonostante l’operazione delle autorità canadesi stesse avvenendo praticamente in contemporanea con le discussioni col presidente cinese Xi su una possibile tregua commerciale.

 

Al contrario, alcuni senatori democratici e repubblicani erano stati informati dei fatti, così come il consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton. Quest’ultimo era al fianco di Trump nella capitale argentina e, in seguito, avrebbe affermato assurdamente che il presidente “non viene informato di ogni notizia” proveniente dal dipartimento di Giustizia americano.

 

Proprio questo ministero aveva dunque coordinato l’arresto in Canada di una personalità ai vertici della principale compagnia cinese senza metterne al corrente il presidente degli Stati Uniti. Ciò testimonia e conferma la presenza e la febbrile attività di una fazione dell’apparato di potere americano, verosimilmente da collegare al famigerato “deep state” o “stato profondo”, che intende boicottare qualsiasi indizio di distensione o allentamento delle tensioni tra Washington e Pechino.

 

Questa sezione della classe dirigente USA è in larga misura la stessa che alimenta la caccia alle streghe contro la Russia ed è disposta a tutto, inclusa una guerra con potenze nucleari o una nuova crisi economica, pur di ostacolare la crescita di potenziali rivali che accelerino il declino americano su scala globale. Allo stesso tempo, come già anticipato, la relativa estraneità di Trump nell’arresto di Meng Wanzhou, o quanto meno del tempismo di esso, dimostra come la campagna anti-cinese sia un’operazione bi-partisan e ampiamente condivisa a Washington, poiché deriva da elementi oggettivi e non è invece la semplice conseguenza di tendenze irrazionali e distruttive provenienti dalla Casa Bianca.

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