Da una settimana a questa parte, la popolazione di un paese latinoamericano sta manifestando in massa contro la corruzione del governo e le condizioni di vita disperate in cui la maggior parte di essa è costretta a vivere. Questo paese non è il Venezuela, dove si stanno concentrando le attenzioni dei media occidentali in seguito alle mire golpiste di Washington, bensì Haiti. Se le proteste che hanno paralizzato l’isola appaiono in questo caso più che legittime, le azioni dei suoi abitanti hanno incontrato finora il disinteresse o, più spesso, l’ostilità di tutte le potenze internazionali.

 

Anche in un paese abituato come pochi al caos e all’instabilità, gli eventi di questi giorni appaiono eccezionali. I resoconti dei media locali parlano di dimostrazioni che stanno bloccando le principali arterie stradali, mettendo in ginocchio sia la capitale, Port-au-Prince, sia le altre principali città e, in particolare, i dipartimenti del nord-est e del nord-ovest del più povero dei paesi dell’emisfero occidentale. Le proteste sono dirette in primo luogo contro il presidente, Jovenel Moïse, ma hanno preso in fretta una forma più ampia ed esprimono la rabbia della popolazione per le disuguaglianze sociali esplosive, la corruzione dilagante e un livello di inflazione che rende la vita impossibile.

 

Dall’inizio della rivolta il 7 febbraio scorso, si contano almeno una decina di morti negli scontri tra manifestanti e forze di polizia. A Port-au-Prince, queste ultime hanno più volte impedito con la forza alla folla di marciare verso il palazzo presidenziale. Le tensioni sono ingigantite proprio dalla violenza della polizia, a cui lo stesso presidente haitiano ha fatto appello lo scorso fine settimana per cercare di reprimere rapidamente le proteste.

 

Il pugno di ferro non ha tuttavia fermato la mobilitazione e alcuni giornali dell’isola hanno rivelato che membri del partito di governo PHTK avrebbero lasciato con elicotteri le loro abitazioni nel quartiere dei ricchi, Pétionville, per dirigersi verso l’aeroporto della capitale e lasciare almeno temporaneamente il paese.

 

Con il persistere delle manifestazioni e dei blocchi stradali, cibo, medicinali e altri beni di prima necessità iniziano a scarseggiare nei negozi di Haiti. Banche, supermercati, stazioni di servizio sono state assaltate e date alle fiamme, mentre scuole, trasporti e molti servizi pubblici risultano sospesi.

 

L’accusa principale mossa contro il presidente Moïse è di essere implicato nello scandalo dell’appropriazione indebita di un prestito da 4 miliardi di dollari a Haiti nel quadro del programma PetroCaribe, promosso dal Venezuela per fornire petrolio ad alcuni paesi dell’America Latina a condizioni di favore. Le richieste di dimissioni erano già sfociate in proteste di piazza lo scorso mese di novembre e a luglio, invece, sempre a causa di massicce manifestazioni popolari il governo era stato costretto a ritirare un provvedimento che avrebbe aumentato il prezzo dei carburanti.

 

L’avversione nei confronti di Jovenel Moïse a Haiti va fatta risalire anche ai contorni della sua elezione alla presidenza nel novembre del 2016. Il voto aveva subito un ritardo di settimane a causa di un devastante uragano che aveva colpito l’isola e, con probabilmente centinaia di migliaia di elettori dei quartieri più poveri impossibilitati a recarsi alle urne dopo che avevano perso i loro documenti nel disastro, Moïse era stato eletto al primo turno nonostante un’affluenza inferiore al 20% e una quota di consensi pari a poco più del 5% degli aventi diritto.

 

Le accuse di brogli erano state inoltre numerose, ma la “comunità internazionale”, a cominciare dagli Stati Uniti, aveva ratificato il risultato perché, in definitiva, Moïse era il candidato preferito per mantenere il proprio controllo su Haiti. L’attuale presidente, in larga misura sconosciuto dagli elettori prima della sua candidatura, era una creatura del suo predecessore, l’ex cantante Michel Martelly, anch’egli punto di riferimento degli interessi americani e del business indigeno e internazionale sull’isola caraibica.

 

Martelly, da sempre simpatizzante della dittatura sanguinaria dei Duvalier, al potere fino al 1986, aveva a lungo governato per decreto nel 2015 dopo lo scioglimento del parlamento haitiano. Alla fine dello stesso anno aveva poi presieduto a un’elezione presidenziale manipolata che, al primo turno, aveva visto vincitore lo stesso Jovenel Moïse. Il ballottaggio sarebbe stato poi annullato in seguito al boicottaggio del candidato dell’opposizione, Jude Célestin, in seguito nuovamente sconfitto dal protetto di Martelly.

 

Come ha scritto in questi giorni la giornalista indipendente americana Whitney Webb, il presidente in carica Moïse e Michel Martelly sono al vertice di un sistema “neo-Duvalierista” a Haiti che fa della corruzione, dell’autoritarismo, della collusione con Washington e con il capitalismo domestico e internazionale la propria ragione di esistenza. Questa struttura di potere oligarchica e anti-democratica non è che l’espressione dell’interventismo di lunga data statunitense sull’isola, i cui tratti inconfondibili sono stati e continuano a essere lo sfruttamento della popolazione e l’impoverimento di massa in una sorta di “esperimento neo-liberista” diretto dal dipartimento di Stato e implementato da una ristretta classe dirigente indigena ultra-corrotta.

 

Mentre il governo americano lamenta in queste settimane l’elezione “irregolare” del presidente Maduro in Venezuela, le presidenziali haitiane del 2010 furono un esempio emblematico delle modalità con cui Washington orienta a proprio piacimento i processi “democratici” di paesi teoricamente sovrani. Ancor più del voto del 2015 e di quello dell’anno successivo, le elezioni del 2010 videro un vero e proprio intervento diretto del segretario di Stato USA, all’epoca Hillary Clinton, per imporre Michel Martelly alla presidenza.

 

Il candidato della famiglia Clinton non si era in realtà nemmeno qualificato per il secondo turno, ma le manovre americane, condotte sotto la minaccia di privare Haiti di aiuti internazionali di importanza vitale, determinarono un cambiamento dei risultati. Martelly venne così spinto al ballottaggio che si sarebbe in seguito aggiudicato, diventando presidente e garantendo gli interessi del governo USA e del clan Clinton sull’isola.

 

Com’era prevedibile, la risposta della comunità internazionale ai fatti di Haiti di questi giorni si è persa in gran parte nel clamore degli eventi del vicino Venezuela. Un gruppo che riunisce le Nazioni Unite, alcuni paesi europei e del continente americano (“Core Group) ha emesso un comunicato ufficiale che condanna gli scontri e, in maniera involontariamente auto-ironica, afferma la necessità di perseguire il cambiamento “attraverso elezioni e non con la violenza”. Questa presa di posizione appare un atto d’accusa formidabile proprio contro coloro che l’hanno assunta, visto che le elezioni che vengono invocate come soluzione alla crisi in atto sono state in passato lo strumento con cui soprattutto gli Stati Uniti hanno deciso la sorte di Haiti.

 

Non solo, quando il voto liberamente espresso dagli abitanti dell’isola non ha dato i risultati auspicati a Washington, l’intervento americano è stato fermo e decisivo. Testimonianza di ciò è il già ricordato secondo turno delle presidenziali del 2010, ma anche la deposizione in due occasioni, per mezzo di altrettanti colpi di stato nel 1991 e 2004, del presidente democraticamente eletto e di orientamento progressista, Jean-Betrand Aristide.

 

Per quanto riguarda la protesta in corso, a fronte di una mobilitazione popolare che appare spontanea, l’opposizione politica haitiana sta cercando chiaramente di incanalarla nel quadro parlamentare e, in definitiva, di spegnere le richieste di cambiamento radicale. Quasi unanime è comunque il coro che chiede le dimissioni del presidente Moïse, il quale ha cancellato in questi giorni un viaggio a Roma dove avrebbe dovuto partecipare al forum del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo presso la sede della FAO.

 

Se la rivolta a Haiti dovesse prendere questa piega e, alla fine, rientrare, lo scenario che emergerà appare simile a quello ipotizzato dall’economista haitiano, Eddy Labossière, intervistato questa settimana da una testata locale. Jovenel Moïse,cioè, finirà per “dimettersi, i politici tradizionali riprenderanno il potere e verrà mantenuto lo status quo. Il ‘Core Group’ vince, l’oligarchia rafforza il suo potere, le privatizzazioni proseguono e il popolo continua a sprofondare nella miseria”.

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