Stampa

Con un decreto palesemente illegale entrato in vigore martedì, il presidente americano Trump ha di fatto abolito il diritto all’asilo per la gran parte degli immigrati che cercano di fuggire da condizioni di vita disperate per trovare rifugio negli Stati Uniti. La nuova norma, che finirà ben presto nelle aule dei tribunali americani, è solo l’ultimo attacco contro i diritti democratici dei migranti e consolida cupamente la deriva neo-fascista dell’amministrazione repubblicana.

 

Il presidente Trump, sotto dettatura dei consiglieri di estrema destra come il fidato Stephen Miller, ha stilato un “ordine” esecutivo che calpesta sia il diritto internazionale sia le stesse leggi degli Stati Uniti. Nel concreto, le autorità di frontiera dovranno respingere sommariamente le domande di asilo, presentate presso i regolari valichi al confine con il Messico, di coloro che hanno mancato di farne richiesta nel primo paese attraversato sulla rotta verso gli Stati Uniti.

 

 

Ad esempio, i migranti provenienti da El Salvador e Honduras dovranno chiedere asilo in Guatemala, mentre i cittadini di quest’ultimo paese si dovranno rivolgere al governo messicano. Le domande di asilo verranno prese in considerazione dagli USA solo in tre casi: se le richieste saranno respinte da altri paesi; se il primo paese di transito non sia firmatario dei trattati internazionali contro torture e persecuzioni; in presenza di vittime di traffico di esseri umani. Per il momento, le protezioni teoriche finora in vigore resteranno tali per i cittadini messicani e per coloro che arriveranno negli Stati Uniti sud-occidentali via mare.

 

Oltre a essere un elemento fondamentale previsto e riconosciuto dal diritto internazionale, l’asilo per i migranti in fuga da situazioni di pericolo è codificato anche dalla legislazione americana. Il cosiddetto “Immigration and Nationality Act” del 1965 consente appunto agli stranieri di presentare richiesta di asilo senza restrizioni se esiste il timore di una qualche persecuzione nei loro paesi di origine.

 

Grazie al “Refugee Act” del 1980, inoltre, il governo americano può deportare gli immigrati in quello che viene definito come un “paese terzo sicuro” solo se vi è un trattato bilaterale, come quello stipulato col Canada, che riconosca tale status. Questa norma era stata assorbita tardivamente dal Congresso di Washington per ovviare a un altro episodio vergognoso nella storia della “patria della democrazia”, cioè la mancata accoglienza durante il nazismo di molti rifugiati ebrei, spesso mandati a morire nei campi di sterminio tedeschi.

 

Il decreto annunciato lunedì e applicato il giorno successivo dall’amministrazione Trump è probabilmente scaturito dalla frustrazione per non avere ottenuto da Messico e Guatemala un accordo che dichiarasse entrambi come “paesi terzi sicuri” e, quindi, per poter procedere con espulsioni di massa in maniera immediata e nel rispetto formale della legge. Il governo di Città del Messico ha ribadito ancora lunedì di non avere alcuna intenzione di acconsentire alle richieste della Casa Bianca, nonostante una clausola oscura che poteva far pensare a un’eventuale intesa in questo senso contenuta nel recente accordo che costringe i migranti ad attendere in Messico l’esito delle loro domande di asilo presentate negli USA.

 

Nel caso del Guatemala, le pressioni di Trump hanno quasi prodotto una crisi diplomatica con Washington e un caso politico sul fronte interno. Lunedì, il presidente guatemalteco, Jimmy Morales, doveva incontrare Trump alla Casa Bianca, secondo indiscrezioni proprio per siglare un accordo di questo genere. Il suo staff ha però annullato la visita all’ultimo momento, con ogni probabilità in seguito a un’ingiunzione di un alto tribunale del Guatemala, secondo il quale dovrebbe essere il parlamento ad approvare un accordo che ratifichi la condizione di “paese terzo sicuro”.

 

La sola idea di definire in questo modo il Messico e, soprattutto, il Guatemala è ad ogni modo risibile. Le condizioni riservate ai migranti centro-americani dal Messico continuano a essere drammatiche, così come sono innumerevoli gli atti di violenza, spesso raccapriccianti, commessi nei loro confronti. Ancora peggio è la situazione del Guatemala, totalmente impreparato ad accogliere una massa di disperati e, oltretutto, con tassi di violenza addirittura superiori a quelli registrati in paesi come Iraq o Afghanistan.

 

Semplicemente assurde sono anche le motivazioni offerte dal governo americano per l’abrogazione di fatto del diritto all’asilo. I dipartimenti della Sicurezza Interna e della Giustizia, che hanno dato notizia del decreto, hanno sostenuto che il provvedimento si è reso necessario a causa del numero fuori controllo di immigrati in arrivo negli Stati Uniti. Questa situazione determinerebbe un eccesso di richieste di asilo, tanto da provocare un dispendio smisurato di risorse governative.

 

Una delle vere ragioni alla base del decreto di Trump è piuttosto l’effetto deterrente che la soppressione del diritto all’asilo dovrebbe avere sui migranti latinoamericani intenzionati a recarsi negli Stati Uniti. Questo obiettivo continua a essere perseguito attraverso la negazione dei diritti umani e con l’applicazione di metodi violenti e inumani. Lo stesso scopo di scoraggiare gli ingressi hanno anche altri elementi della guerra ai migranti in atto, come la separazione delle famiglie giunte in America e la detenzione in condizioni crudeli di adulti e minori “clandestini” in veri e propri lager di frontiera.

 

Il provvedimento sull’asilo, che spinge ancora più a destra le politiche migratorie americane, è motivato però soprattutto da ragioni politiche e ideologiche. Inoltre, l’offensiva anti-migranti della Casa Bianca non trova alcun consenso di massa negli Stati Uniti. Anzi, le manifestazioni contro i campi di concentramento istituiti dal governo e contro i recenti raid in varie città americane per arrestare e deportare immigrati “illegali” dimostrano una diffusa ostilità nei confronti di un presidente esplicitamente xenofobo e razzista.

 

Le iniziative per dividere le classi più disagiate, di americani o stranieri, alimentando i sentimenti più retrogradi nella popolazione, servono a mobilitare la base di estrema destra e fascista che sostiene questa amministrazione, in previsione di un intensificarsi dello scontro sociale e in preparazione di forme di governo sempre più autoritarie.

 

Emblematico del comportamento per molti versi senza precedenti del presidente americano è stata l’accesissima polemica di questi giorni che ha portato alla luce ancora una volta tendenze anti-democratiche, razziste e fascistoidi. Trump si è scagliato cioè in più di un’occasione contro alcune deputate democratiche appartenenti a minoranze razziali e considerate come le esponenti più carismatiche della sinistra del loro partito.

 

Ilhan Omar (deputata di origine somala del Minnesota), Ayanna Pressley (di colore del Massachusetts), Alexandria Ocasio-Cortez (portoricana di New York) e Rashida Tlaib (palestinese del Michigan) sono state invitate dal presidente a lasciare gli Stati Uniti e a tornarsene nei loro paesi di provenienza, pur essendo tre su quattro nate negli Stati Uniti, se “scontente” della realtà americana. In maniera significativa, Trump ha sottolineato più volte la presunta appartenenza delle quattro deputate alla “sinistra radicale” o il loro essere “socialiste” o “comuniste”, anche se nessuna di loro merita in effetti anche una sola di queste definizioni.

 

Nel sollecitare odio e, non è da escludere, atti di violenza contro quanti si oppongo alle politiche della Casa Bianca, il presidente americano continua dunque a mostrare tutta l’intenzione di isolare e criminalizzare i propri rivali politici, così come le fasce più deboli della società, liquidando apertamente anche il rispetto formale delle norme democratiche che ha da sempre contraddistinto il comportamento esteriore delle classi dirigenti degli Stati Uniti.