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Dopo mesi di pose elettorali, nel governo inizia la battaglia sul reddito di cittadinanza. La settimana scorsa il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto omnibus che, tra i vari provvedimenti, prevede il rifinanziamento del sussidio. Nel corso della riunione, il ministro leghista dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha protestato contro la misura per via delle coperture: i 200 milioni stanziati (comunque meno dei 260 contenuti nella prima bozza) arrivano dai soldi iscritti a bilancio e poi non spesi per altri interventi sociali, ossia l’Anticipo pensionistico per i lavoratori precoci e le occupazioni gravose, il Reddito d’emergenza e i congedi parentali.

 

“Beffardo usare i soldi di chi ha lavorato duramente per una misura che mi auguro esca dal testo finale”, ha detto Giorgetti, che in Consiglio ha incassato l’appoggio del forzista Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica, e della titolare della Famiglia, Elena Bonetti, di Italia Viva. A sostegno del reddito di cittadinanza si sono schierati invece il pentastellato Stefano Patuanelli, ministro dell’Agricoltura, e il dem Andrea Orlando, titolare del Lavoro, ricordando quanto il sussidio sia stato importante durante la pandemia.

Negli ultimi anni, in effetti, il reddito di cittadinanza è cresciuto di pari passo con la povertà assoluta e con il disagio economico, al punto che oggi il sussidio costa allo Stato il 67% in più di quando è nato, nel 2019. In tre anni l’esborso è passato da 433 a 722 milioni di euro al mese, mentre le famiglie beneficiarie di almeno una mensilità sono lievitate da poco più di un milione a un milione e 674mila.

Questi numeri spiegano per quale ragione quest’anno è stato necessario rifinanziare la misura tre volte, aggiungendo 1,4 miliardi ai 7,2 del costo base. I primi 196 milioni erano stati stanziati dal governo Conte 2 subito prima di cadere, mentre l’esecutivo Draghi ha aggiunto un miliardo con il decreto Sostegni di marzo e altri 200 milioni con il provvedimento della settimana scorsa. Ma questi soldi servono solo ad arrivare alla fine del 2021: per il prossimo anno ne occorrono almeno altri 800, se non si vuole tagliare l’assegno mensile alle famiglie che lo incassano.

La vera battaglia sul reddito di cittadinanza, quindi, deve ancora iniziare: si combatterà al tavolo della legge di bilancio, in cui finiranno non solo i soldi per finanziare la misura nel 2022, ma anche i correttivi per farla funzionare meglio. E sarà proprio questa la mediazione più complessa, perché Draghi ha in mente una riforma profonda del reddito, per raggiungere un compromesso tra la furia del centrodestra, che chiede l’abolizione tout-court del sussidio, e l’indulgenza di M5S e Pd, che vorrebbero intervenire solo sul lato più debole della misura, quello delle politiche attive per il lavoro. 

Dati Inps alla mano, non c’è dubbio che il reddito di cittadinanza abbia fallito come strumento per aumentare l’occupazione. La rifondazione dei centri per l’impiego è quindi fondamentale, ma si tratta di un’impresa colossale - vagheggiata da più legislature - e comunque insufficiente a risolvere tutti i problemi che affliggono la misura bandiera dei 5 Stelle.

L’altro grande obiettivo è ridurre il numero di persone che ricevono l’assegno abusivamente perché lavorano in nero. Si punta quindi a migliorare i controlli, che oggi avvengono ex post, a campione, e sono affidati completamente all’Inps.

C’è poi l’idea d’introdurre una forma di “décalage”, ossia di far scendere l’importo dell’assegno dopo un determinato lasso di tempo, in modo da incentivare le persone ad accettare anche quei lavori che oggi rifiutano.

Ma bisogna anche tenere conto di alcune difficoltà su cui non si ragiona nei dibattiti politici. Secondo il Rapporto annuale dell’Inps, ad esempio, “due terzi dei percettori del reddito non sono occupabili”: su 3 milioni di persone, infatti, 153mila sono pensionati, 1 milione e 350 mila sono minorenni e 450mila disabili. La Caritas aggiunge che, come titolo di studio, il 72% ha al massimo la terza media.

Purtroppo, questi argomenti passeranno come sempre in secondo piano di fronte alle esigenze dei partiti. Da una parte c’è la Lega, che – sconfitta su Quota 100, sul green pass e alle amministrative – ha bisogno di un nuovo diversivo da agitare sotto il naso degli elettori. Dall’altra il Movimento 5 Stelle, che è a un passo dall’andare in pezzi e non può permettersi cedimenti di sostanza sulla sua misura-simbolo. La spaccatura è talmente profonda che gli equilibri della maggioranza rischiano di vacillare. Ma, per fortuna di Draghi, al momento leghisti e pentastellati sono troppo deboli per fare minacce credibili.