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L’ex presidente americano Trump potrebbe diventare questa settimana il primo ex inquilino della Casa Bianca a essere incriminato formalmente, se non addirittura a finire agli arresti. Il procuratore distrettuale di Manhattan, Alvin Bragg, starebbe infatti per ufficializzare le accuse nell’ambito di un’indagine che sembrava a tutti gli effetti archiviata alcuni anni fa. I fatti non si riferiscono né all’assalto all’edificio del Congresso del gennaio 2021 né ai vari reati finanziari che Trump potrebbe avere commesso in veste di imprenditore. Il caso in questione riguarda invece il pagamento di una consistente somma di denaro per nascondere la notizia di una sua avventura extraconiugale con la pornostar Stormy Daniels (vero nome Stephanie Gregory Clifford).

 

La vicenda giudiziaria ha implicazioni tutte politiche e non solo per il tentativo dello stesso Trump di sfruttare l’eventuale incriminazione per generare entusiasmo attorno alla sua campagna elettorale da poco lanciata. In sostanza, con la corsa alla Casa Bianca appena iniziata, un procuratore vicino al Partito Democratico sta cercando di rispolverare un episodio che sembrava dimenticato e oggettivamente trascurabile, producendo una tesi legale discutibile per imbrigliare l’ex presidente in un procedimento in grado quanto meno di indebolirlo nella competizione per la nomination repubblicana.

Il caso al centro delle indagini della procura di Manhattan si riferisce al pagamento di 130 mila dollari alla già citata attrice di film per adulti poco prima delle presidenziali del 2016, in modo da comprarne il silenzio ed evitare ripercussioni negative sulla campagna in corso. Stormy Daniels/Stephanie Clifford aveva già più volte provato a ricavare un qualche guadagno dal rapporto sessuale che i due avrebbero avuto nel 2006, ma senza successo. Quando però, a poche settimane dal voto, sulla stampa USA era circolato un video in cui Trump si auto-celebrava per i suoi successi con le donne ostentando metodi al limite delle molestie, l’attrice e i suoi avvocati avevano ritenuto fosse arrivato il momento opportuno per passare all’incasso.

Trump aveva così incaricato il suo legale, nonché uomo di fiducia, Michael Cohen, di versare di tasca propria il denaro richiesto a Stormy Daniels/Stephanie Clifford. In seguito, Cohen sarebbe stato rimborsato dall’organizzazione della campagna elettorale di Trump ascrivendo la somma a non meglio precisate “spese legali”. L’imbroglio aveva alla fine messo nei guai l’avvocato di Trump, il quale ha da parte sua patteggiato una condanna di tre anni per violazione della legge sul finanziamento elettorale. Lo stesso Michael Cohen è il testimone chiave del caso che coinvolge l’ex presidente presso la procura di Manhattan.

La fragilità dell’impianto accusatorio odierno nei confronti di Trump si deduce anche dal fatto che, anni fa, sia la Commissione Elettorale Federale sia un procuratore federale avevano concluso che non vi erano gli estremi per procedere contro l’ex presidente. Anche il tentativo di accusare Trump di avere falsificato documenti commerciali in base alla legge dello stato di New York non sembra percorribile, trattandosi di un reato minore (“misdemeanor”) e quindi ormai in prescrizione.

Secondo le notizie riportate dalla stampa americana, il procuratore Bragg starebbe cercando di aggirare quest’ultimo impedimento collegando la falsificazione di documenti a un reato più grave (“felony”), ovvero la violazione della legge elettorale federale. Nello stato di New York non sembrano esserci tuttavia precedenti di incriminazioni in base a una tesi di questo genere ed è perciò possibile che il giudice incaricato del caso decida di negare la richiesta della procura distrettuale. Altre strade per portare Trump in tribunale non si possono escludere, ma il rinvio della decisione da parte di Alvin Bragg, dopo che un annuncio ufficiale era atteso per martedì, sembra confermare le difficoltà nel mettere assieme un caso in maniera coerente contro Trump.

Nel fine settimana, Trump ha comunque infiammato deliberatamente il clima politico attorno alla vicenda che lo riguarda. Sul “social” di sua proprietà Truth, ha attaccato pesantemente il procuratore di New York, per poi annunciare egli stesso il possibile imminente arresto. Con toni che sono apparsi simili a quelli che anticiparono la mobilitazione contro il Congresso di Washington, Trump ha poi invitato i suoi sostenitori a protestare di fronte alla procura che intende incriminarlo.

Come in altre occasioni nel recente passato, l’ex presidente intende evidentemente sfruttare anche questo procedimento giudiziario per denunciare le persecuzioni che starebbero macchinando i suoi oppositori dentro l’apparato di potere. Il tentativo di accendere la sua base elettorale contro le “élites” riconducibili al Partito Democratico è però solo una parte del piano. È altrettanto evidente che Trump punti in questa circostanza a spostare ancora di più a suo favore gli equilibri in casa repubblicana, forzando i suoi rivali per la nomination – veri o potenziali – a prendere una posizione pubblica sul caso Stormy Daniels.

Un’organizzazione che sostiene la sua campagna elettorale sta infatti tenendo traccia e divulgando le reazioni dei vari leader repubblicani, alcuni dei quali hanno evidentemente già avvertito le pressioni. L’ex vice presidente, Mike Pence, ha espresso ad esempio il proprio sostegno al suo ex superiore, mentre colui che è ritenuto il principale ostacolo alla nomination di Trump, il governatore della Florida Ron DeSantis, ha denunciato il comportamento di procuratori politicizzati come Bragg, “finanziati da George Soros”.

Per quanto riguarda le ragioni dei tentativi di affondare la campagna di Trump, i precedenti sono numerosi e ben noti. Già nel 2016 il Partito Democratico costruì a tavolino la macchina del “Russiagate” per inventare accuse di collusione con il Cremlino. In linea generale, l’apparato tradizionale di potere negli Stati Uniti, inclusa la fazione che fa capo al Partito Repubblicano, considera la figura di Trump destabilizzante per i propri interessi, non tanto per le effettive capacità o intenzioni di marginalizzare il cosiddetto “deep state”, quanto per l’imprevedibilità e la volubilità di eventuali decisioni strategiche “controproducenti”, soprattutto sul piano internazionale.

A ciò bisogna aggiungere i campanelli di allarme suonati negli ultimi mesi a Washington dopo che Trump ha abbracciato pubblicamente una retorica anti-bellica per screditare Biden, il partito Democratico e il bersaglio preferito in casa repubblicana, ovvero i “RINO” (“Republican In Name Only” o “Repubblicano solo di nome”). Alcuni passaggi di un recente video pubblicato sempre su Truth Social chiariscono i motivi del disagio crescente nei confronti di Trump e della sua candidatura per le elezioni del 2024. L’ex presidente ha attaccato “l’establishment globalista neocon” che “insegue mostri e fantasmi oltreoceano, trascinandoci continuamente in guerre senza fine”.

Riferendosi al conflitto in Ucraina, Trump ha avvertito che “Biden ci ha portato a un passo dalla Terza Guerra Mondiale”; per questa ragione, “il nostro obiettivo è un’immediata e totale cessazione delle ostilità”. Più avanti, il discorso si fa ancora più infuocato. Spiega ancora Trump: “Dobbiamo ultimare il processo di revisione complessiva degli obiettivi e della missione della NATO”. I responsabili della politica estera USA puntano a provocare “una guerra con una potenza nucleare come la Russia in base alla menzogna che questo paese rappresenta per l’America la minaccia più grave”. Infine: “La più grande minaccia odierna alla civilizzazione occidentale non è la Russia, ma, probabilmente e più di chiunque altro, siamo noi stessi”, ovvero gli Stati Uniti.

La retorica di Trump è evidentemente ben calibrata per cavalcare i sentimenti pacifisti e anti-sistema che stanno dilagando nel paese sull’onda dell’opposizione al coinvolgimento di Washington nel conflitto ucraino. Questa strategia elettorale è considerata potenzialmente vincente dagli stessi democratici e dalla Casa Bianca, la cui popolarità è in netto calo. Da ciò deriva quindi la necessità di ostacolare la candidatura di Trump rilanciando i guai legali che lo hanno sfiorato nel recente passato.

I timori per un nuovo successo alle urne di Trump non riguardano tanto la vera guerra al “deep state” che l’ex presidente potrebbe condurre. L’esperienza del primo mandato testimonia d’altra parte dell’incapacità di Trump di svincolarsi dalle maglie del sistema. Una vittoria grazie a un’agenda anti-establishment in un momento storico cruciale per la sopravvivenza di ciò che resta dell’egemonia globale degli Stati Uniti rischierebbe però di alimentare un movimento popolare difficile da controllare, aggravando la profondissima crisi di legittimità in cui versa la classe dirigente americana.