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di Fabrizio Casari

Un successo immeritato contro l’Udinese che ha riportato il Milan al comando della classifica, grazie anche al fatto che la Juventus non ha giocato causa maltempo, il ritorno alla vittoria del Napoli e della Lazio e la conferma della splendida realtà calcistica del Catania guidata da Montella, hanno scritto la cronaca della giornata calcistica spezzettata causa neve. Ma a dare un senso più prospettico ad una giornata calcistica diversa dalle altre sono stati i tonfi dell’Inter e della Roma contro Novara e Siena.

L’Inter e la Roma, sconfitte entrambe da provinciali, sono le due delusioni del calcio di vertice. Quelle che negli ultimi anni hanno dato vita al duello rusticano per il campionato italiano, sono oggi fortemente in discussione da parte di tifosi e addetti ai lavori. Sono due situazioni molto diverse, certo. L’Inter è alle prese con l’infinita transizione del dopo Mourinho, viziata da una campagna cessioni e acquisti che, vittima il fair play finanziario, è stata giocata più sulla riduzione del monte ingaggi che sulla ricerca di giocatori funzionali al progetto di rinascita.

Ma il fair play finanziario non è l’unica causa del brusco ridimensionamento di una società che ha venduto Balotelli, Eto’o e Motta in tre diverse sessioni senza che gli arrivi abbiano vagamente potuto sostituire i partenti. Per capirci: Eto’o, lo scorso anno, a questo punto della stagione aveva realizzato - da solo - 24 gol; i suoi sostituti (Forlan, Zarate e Castanois) ne hanno segnati - insieme - solo 3. E, sempre per parlare di cose che con il fair play finanziario non c’entrano niente, ci si domanda a cosa serva acquistare Ranocchia, Poli, Obi, Castanois, Alvarez, Jonathan, Faraoni, se poi giocano, come sette anni fa, i Cambiasso, Zanetti, Chivu e Cordoba?

La situazione viene poi oltremodo complicata da Ranieri, tecnico provvisto di grande esperienza ma non in grado di costruire gioco. Le ultime due sconfitte dell’Inter, scesa in campo con una sola punta per poi, contro il Novara, finire con quattro attaccanti, sono un segnale della confusione tecnico-tattica dell’allenatore romano, che ha ormai cambiato cinque schemi di gioco mantenendone solo uno fisso: i giovani in tribuna e i senatori in campo; chi corre in panchina e chi cammina titolare.

Certo per Moratti la strada non è semplice; avendo sbagliato a tenere i Milito, Maicon, Snejider dopo il triplete, vuoi per senso di riconoscenza, vuoi perché convinto che avrebbero potuto dare ancora vittorie (e in parte è stato vero) ha rinunciato ad incassare denari importanti che oggi non arriveranno più e si trova ormai nella condizione di spalancare i cancelli di Appiano con la tromba che suona il “rompete le righe”. Ma le cessioni di coloro che un tempo furono big, non porteranno denari, solo risparmi nel monte ingaggi, comunque inutili nel caso non dovesse arrivare in Champions, cosa che da sola significherebbe la perdita di oltre 30 milioni di Euro.

L’Inter che in cinque anni ha vinto 17 titoli è finita e per i tifosi è duro farsene una ragione. Ma il patron qualcosa dovrà pur fare. Sul piano dell’allenatore dovrà per forza scegliere un tecnico vincente o comunque dotato di grande carisma: l’Inter non è una squadra qualsiasi e allenare a Milano prevede un livello di qualità indiscutibile.

Peraltro, il nuovo tecnico dovrebbe avere carta bianca sul mercato e sullo spogliatoio, il che non è facile; e dovrà poter plasmare i giovani, non solo quelli acquistati, ma anche quelli che nella Primavera fanno vedere cose egregie. Serve poi urgentemente il rientro di Oriali e il pensionamento di Branca e Ausilio per ridare senso all’organizzazione aziendale.

Ma la cosa migliore sarebbe che Moratti parlasse chiaro ai suoi tifosi, spiegando la situazione aziendale e annunciando la rivoluzione che verrà; forse meglio dire che si farà un anno di transizione con l’unico obiettivo di plasmare una nuova squadra fatta di sette-otto giovani e due o tre più esperti per poter vincere domani, piuttosto che continuare a vivere di ricordi. I tifosi accetteranno e il nuovo tecnico potrà lavorare in pace. La rivoluzione deve trovare l’ambiente compatto per poter diventare governo.

Discorso diverso per la Roma, ma non per questo più rassicurante. Il “progetto”, come ormai si chiama ogni idea o suggestione, è stato avviato facendo ricorso ad un cambio di panchina e di giocatori voluto dalla nuova dirigenza, a sua volta scelta da Unicredit e i soci americani, con i primi a metterci i soldi e i secondi a metterci la faccia (peraltro fino a pochi mesi fa decisamente sconosciuta).

Baldini, dapprima all’ombra dell’incarico per la Federazione britannica, poi in prima persona, ha concepito insieme a Sabatini un nuovo progetto tecnico, con lo scopo di riportare la società in una condizione economica soddisfacente e di aprire un ciclo di “nuovo calcio” che, nelle intenzioni, dovrebbe fornire nello spazio di un paio d’anni una nuova “filosofia”  che ispirerebbe la nuova fisionomia di gioco. E’ presto, forse, per dire se l’idea di calcio di Luis Enrique, ex tecnico della squadra B del Barcellona, sarà in grado di concepire una formazione che emuli la corazzata allegra catalana, ma certo i risultati raggiunti fino ad ora non fanno ben sperare. Dieci sconfitte subite e il sesto posto alle spalle dell’Inter non indicano proprio una marcia trionfale.

La Roma è un’alternanza continua di vittorie entusiasmanti e sconfitte disarmanti, ma questo non lo si deve ad una insufficienza da parte dei giocatori ad assimilare il credo calcistico di Luis Enrique. Si deve invece agli avversari che si trova di fronte: quando è lasciata giocare, la Roma si scatena; quando invece è attaccata, pressata, aggredita nella sua metà campo, va in bambola. Per questo può rifilarne 4 all’Inter e prenderne altrettanti dal più modesto Cagliari.

Il risultato contro l’Inter ha illuso i giallorossi, che avrebbero invece dovuto tener conto come quel risultato sia stato causato più dalla prestazione degli uomini di Ranieri che dalla Roma stessa. Perché questa è la differenza fondamentale tra i due allenatori: per Luis Enrique il centrocampo è l’inizio della manovra d’attacco, per Ranieri è il primo sbarramento difensivo.

Si disserta molto di possesso palla (spesso fine a se stesso) e ariosità del gioco, di trame veloci e di squadra votata all’attacco, sempre e comunque. Alla fine però contano i gol fatti e quelli subìti, e la differenza sembra ancora farla la presenza di De Rossi in campo a fare da frangiflutti davanti alla difesa e a impostare l’azione di rilancio.

Anche qui, il discorso delle cessioni e degli acquisti non può essere evitato: vendere Vucinic, Borriello, Pizarro, Mexes e Menez, tenere in panca sempre Perrotta (ed avere l’isterico Burdisso come punto di riferimento difensivo, peraltro fuori dal campo per tutta la stagione causa infortunio) ed averli sostituiti con Josè Angel, Krjiaer o Bojan, non pare aver rafforzato la compagine. E il fatto che la Roma offra le sue migliori prestazioni quando girano Totti, De Rossi e Juan, racconta bene quanto il nuovo non riesce ancora a sostituire il vecchio.

Azzeccati invece sono stati gli acquisti di Lamela, Pianic, Stekelemburg e Borini, ma la domanda alla quale fornire una risposta è la seguente: per il valore necessario ad un posizionamento di vertice nel calcio italiano, quanti dei titolari della Roma sono all’altezza?

Diversamente dall’Inter, peraltro, la Roma ha investito 70 milioni di euro sul mercato, non certo bruscolini, e non si vede da dove potrebbe ricavare ulteriori fondi per assestare meglio la squadra con nuovi acquisti, giacché il parco giocatori che potrebbero essere ceduti per fare cassa ha un mercato molto limitato e, tutto sommato, low cost.

Si sente dire che la differenza tra Roma e Inter consisterebbe nel fatto che la prima avrebbe il famoso “progetto”, la seconda deve ancora essere rifondata: Ma siamo sicuri che con dieci sconfitte in 22 partite si possa parlare di “progetto” senza che rischi l’ilarità involontaria? Se uscire dall’Europa, dalla Coppa Italia e dal campionato significa avere un “progetto”, allora forse è meglio non averlo. O, più semplicemente, riscriverlo, adeguandolo al calcio italiano che si gioca sul campo e non a quello che si vede in tv nei campionati esteri. Va bene il libro dei sogni, ma i risultati hanno la testa dura.