di Sara Michelucci

Montaggio incalzante, musica accattivante e l’uso di una doppia telecamera. Danny Boyle torna al cinema con un film decisamente forte, 127 ore, basato sulla vera storia di Aron Ralston (interpretato da James Franco), alpinista statunitense che nel maggio del 2003 rimase intrappolato sulle montagne dello Utah, costretto ad amputarsi un braccio per potersi liberare dal masso che per quasi 5 giorni lo ha trattenuto in una gola del Blue John Canyon. Il film scritto a quattro mani dal regista di The Millionaire e da Simon Beaufoy, trae ispirazione dal libro di Ralston, Between a Rock and a Hard Place.

Qual è il confine dell’avventura? Sembra chiedere Boyle. Ovvero quanto possiamo spingerci oltre il buon senso, senza rischiare di perdere la vita e tutto quello che abbiamo? Il protagonista, che all’epoca aveva 28 anni, è un amante del trekking, del biking e dell’avventura in generale. Come fa di solito decide di partire per un nuovo viaggio, senza dire niente a nessuno. Una gita solitaria, inframmezzata dal breve incontro con due ragazze, anche loro in visita nello Utah, e da un tuffo in un meraviglioso lago sotto le rocce. Tutto sembra andare per il verso giusto, con un paesaggio mozzafiato a fare da contorno e un senso di libertà che fa bene all’anima.

Ma il pericolo è proprio dietro l’angolo e Ralston precipita insieme a un grosso masso in una crepa del canyon, con il braccio incastrato dalla roccia. Provato dalla fame e dalla sete, e anche dalla paura di non poter rivedere più i suoi cari e di essersi lasciato sfuggire la sua ragazza, perché mosso da troppo egoismo, Ralston si metterà in discussione e in quella forzata “prigionia” sarà accompagnato da flashback che gli faranno capire l’importanza  di certi legami, mischiati a immagini oniriche e allucinazioni, dove il confine tra realtà e sogno si perde. A livello registico il film è decisamente interessante e mette in luce ancora una volta la bravura di Boyle.

L’avvicendamento della telecamera con quella a mano del protagonista crea quasi uno sdoppiamento della regia che offre allo spettatore un’alternanza di punti di vista. La videocamera digitale sarà in quei 5 giorni l’unico interlocutore di Aron, a cui lascerà alcuni messaggi e che racconterà attraverso le immagini parte di quella terribile esperienza. Arrivato alla disperazione lo spirito di sopravvivenza porterà Aron ad amputarsi il braccio, per ritrovare la libertà. La fotografia riesce a cogliere appieno i colori e gli “umori” del tempo, e il passaggio dal giorno alla notte scandisce le ore, ma anche la vita stessa del protagonista, in un crescendo di emozioni, dove la voglia di vivere vince su tutto il resto.

127 ore (Gran Bretagna - Usa 2010)
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Danny Boyle, Simon Beaufoy
Attori: James Franco, Kate Mara, Amber Tamblyn, Treat Williams, Sean Bott, Koleman Stinger, John Lawrence, Kate Burton
Fotografia: Enrique Chediak, Anthony Dod Mantle
Montaggio: Jon Harris
Musiche: A.R. Rahman
Produzione: Cloud Eight Films, Pathé
Distribuzione: 20th Century Fox

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Remake del famoso western di Henry Hathaway, con il quale John Wayne ottenne l'unico premio Oscar della sua carriera, Il Grinta diretto dai fratelli Ethan e Joel Coen dà nuova linfa ad un genere che sembrava appartenere al passato o ai grandi nomi del cinema americano.

È una storia di vendetta quella che raccontano i Coen, tematica frequentemente visitata in molti film western. Dopo che il padre è stato ucciso da un pistolero di nome Tom Chaney (interpretato dal bravissimo Josh Brolin), la 14enne Mattie Ross intraprende un viaggio per cercare e uccidere l’assassino. Ma da sola non può farcela, così assolda il più duro degli Us Marshal, Reuben J. “Rooster” Cogburn (Jeff Bridges), con un solo occhio, un caratteraccio e piuttosto “dedito” alla bottiglia. Cogburn accetta con riluttanza che Mattie lo accompagni nella caccia a Chaney, ma alla fine dovrà arrendersi alla grinta e alla caparbietà della giovane ragazza.

Ma non sono soli e il loro viaggio vedrà la presenza del Texas Ranger di nome LaBoeuf (Matt Damon), il quale insegue una taglia su Chaney. Lo stile dei Coen risalta subito, mischiando l’ironia pungente con atmosfere e scenari tipici del genere, dove i grandi paesaggi riempiono gli occhi e il cuore.

E già con Non è un paese per vecchi il duo registico aveva dato un primo assaggio di questa atmosfera da Far West, annunciando la volontà di dare alla luce un film western nel Ventunesimo secolo. E si parte da un classico del grande schermo, per dare vita alle avventure di una serie di antieroi che mettono in evidenza prima le proprie debolezze e mancanze e poi le proprie capacità di raggiungere l’obiettivo, anche a suon di pistolate.

A volte la figura dell’eroe vendicativo è impiantata su quella dell’uomo comune che, dopo aver subito una grave ingiustizia, diventa un’anima dannata placata solo dalla morte del suo nemico. L’unica legge che conta nel West è quella personale visto che lo Stato è ancora un concetto astratto. L’ansia di giustizia porta alla configurazione di un eroe particolare, di antieroe o un post-eroe, come lo definisce lo studioso Gino Frezza, una figura archetipica dell’angelo dannato del quale resta lucida coscienza dell’irrimediabile tensione fra ordine e caos.

Nei film dei fratelli Coen si va anche oltre e sono le debolezze dell’uomo comune, ma più spesso dell’uomo fallito, ad essere messe al centro dell’attenzione. Da Il grande Lebowski, storia di un ex hippie, disoccupato e cronicamente pigro, che senza troppi problemi si barcamena tra una partita di bowling, una canna e dosi massicce di White Russian, a A Serious Man, dove un ordinario professore del Minnesota, che vive una vita familiare e professionale totalmente deludente, tenta di risolvere i suoi problemi chiedendo consiglio a tre rabbini; il cinema di questi due autori è denso di personaggi problematici, ma decisamente divertenti e con cui si trova subito affinità.

Anche ne Il Grinta, questi eroi contemporanei, nonostante raggiungano un obiettivo comune, sono alla fine destinati a restare da soli. Perché, in fondo, “il tempo ci sfugge”, e non possiamo farci molto, se non tentare di vivere a pieno le emozioni più forti.

Il Grinta (Usa 2010)
Regia: Ethan Coen, Joel Coen
Interpreti: Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Josh Brolin, Matt Damon, Barry Pepper, Paul Rae, Domhnall Gleeson, Elizabeth Marvel, Ed Corbin, Dakin Matthews, Joe Stevens, Mary Anzalone,
Tratto da: ‘Il Grinta’ di Charles Portis
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Produzione: Scott Rudin Productions, Paramount Pictures, Skydance Productions, Mike Zoss Productions

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Ancora le donne al centro del secondo film diretto da Gianni Di Gregorio. Se in Pranzo di Ferragosto l’universo femminile che ruota attorno al mite e un po’ “represso” protagonista, ha superato da un pezzo la settantina, questa volta, nella pellicola Gianni e le donne, il sessantenne Gianni, interpretato dallo stesso Di Gregorio, è circondato da un più ampio e variegato "cast" femminile.

Animo bonario, molti rimpianti e poche ambizioni, Gianni deve districarsi tra una figlia amata, ma piuttosto irrequieta, una mamma novantenne esagerata nei modi e nello spendere (che richiama quella di Pranzo di Ferragosto, stile nobildonna decaduta) e una moglie che ha mille impegni e che per questo è spesso assente. Con una bottiglia che lo accompagna, Gianni scopre, grazie ad uno sfacciato amico avvocato, un mondo tutto nuovo, fatto di sinuose badanti, vicine eleganti, primi amori. Così a Gianni pare di vivere una seconda giovinezza, se non una prima vera e propria; ma la cruda realtà di uomo in avanti con gli anni lo riporterà con i piedi ben saldi a terra.

Gianni e le donne è una commedia raffinata, che si discosta da quella realtà politica e sociale che, sopratutto negli ultimi tempi, vede un machismo piuttosto triste sopraffare l’uomo elegante e che ci sa davvero fare con le donne. Di autobiografico, anche in questo film, c’è davvero molto. La presenza materna è decisamente ingombrante, ma allo stesso tempo tenera. E poi Trastevere, il quartiere dove il regista ha sempre vissuto e forse, come ha detto in alcune interviste, da dove non è quasi mai uscito, conoscendo ormai ogni angolo e ogni personaggio di quello spaccato di mondo all’interno della Capitale.

Nato a Roma nel 1949, Di Gregorio, oltre ad essere un bravo attore e regista, è stato co-sceneggiatore del film Gomorra di Matteo Garrone e sceneggiatore di Sembra morto ma è solo svenuto. Un cinema, quello di Di Gregorio, semplice nella forma ma profondo e articolato nel contenuto, che serve a parlare di se stessi, mettendo in scena vizi e virtù, debolezze e manie dell’uomo di mezza età, che vorrebbe osare di più ma che forse sta bene così come è.

L’autoironia, poi, è uno strumento vincente per mettere in scena la condizione di un uomo comune e un po’ maldestro, incastrato tra la monotonia di una vita sempre uguale e la voglia, seppure sopita, di rivoluzionarla. Fa piacere allora, che un bel film italiano come questo sia stato scelto per la Berlinare e certo le ottime recensioni internazionali l’hanno aiutato. Sono infatti 13 i Paesi che hanno già acquistato il film. Insomma il cielo sopra Berlino è decisamente azzurro. E si spera anche quello italiano.

Gianni e le donne (Italia 2011)
Regia: Gianni Di Gregorio
Sceneggiatura: Gianni Di Gregorio
Interpreti: Gianni Di Gregorio, Valeria Bendoni, Alfonso Santagata, Elisabetta Piccolomini, Valeria Cavalli, Aylin Prandi, Kristina Cepraga, Michelangelo Ciminale, Teresa Di Gregorio, Lilia Silvi, Gabriella Sborgi
Distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Sono i favolosi anni Sessanta quelli in cui Nicola nasce e cresce. Ma di favoloso c’è ben poco per un bambino come lui, che conosce presto l’esperienza del manicomio, prima attraverso la tragica fine di una madre ridotta a cadavere vivente dalla lobotomia e dagli elettroshock, poi attraverso la sua diretta esperienza di matto rinchiuso in un luogo fatto di giornate sempre uguali, senza tempo, perché i matti non hanno tempo, con l’odore riconoscibile e che si staglia addosso, come se fosse un’etichetta, un riconoscimento.

Ascanio Celestini lascia il palcoscenico del teatro, ma solo per un attimo, e si mette dietro la macchina da presa, raccontando attraverso La Pecora nera, i 35 anni di manicomio di Nicola (interpretato dallo stesso Celestini) e attraverso di lui di tutte quelle persone che hanno subito un trattamento sanitario obbligatorio. Una tematica di studio per Celestini, che ha lavorato a lungo sull’argomento, sentendo numerose testimonianze di gente che ha vissuto in manicomio negli anni precedenti alla legge Basaglia, la quale ne ha ordinato la chiusura.

“Noi ci mangiamo la terra e i sassi nel giardino ad angolo retto, inciampiamo sui nostri passi quando fa buio torniamo a letto per fare in fretta la nostra cena per non avere troppi pensieri, ce la servono in endovena le suore, i medici e gli infermieri”, canta Celestini nella canzone "I matti".

Ma chi sono davvero i matti? Quanti di loro in realtà sono etichettati come tali dalla società, senza esserlo davvero, per i motivi più differenti e sono costretti a subire violenze e umiliazioni di ogni tipo? “Se si toglie il camice diventa matto anche lui”, dice nel film un internato riferendosi ad un dottore.

Nicola è l’essenza stessa di questo dolore. Bambino deriso, non amato, solo, che sente riecheggiare sempre la stessa melodia nella sua mente - “Io che ti faccio e ti disfo, come ti faccio ti disfo. Pio pio pio pio pio pio pio” - come se il suo destino fosse stato già scritto da tempo. Adulto scisso, rinchiuso nelle paure più insormontabili, domate solo da una scarica elettrica. Il suo alter ego, interpretato dal bravo Giorgio Tirabassi, è il vero matto per Nicola. Lui, invece, che può andare a fare la spesa da solo, anche senza la suora, ha ancora una chance che si chiama Marinella (Maya Sansa). Quella bimba che da piccolo non ha saputo conquistare e che ora, da adulta, può amare, rappresenta l’unico contatto vero con il mondo reale. Ma Nicola non è più padrone dei suoi sensi e della sua mente, nel suo ‘manicomio elettrico’ è già stato tutto deciso. E i suoi giorni sono legati ad un letto freddo e senza colori.

L’allegoria, la metafora, sono l’essenza stessa di questo film, e del lavoro di Celestini che sa narrare gli orrori del nostro tempo attraverso i racconti di personaggi inventati, ma che sono molti più simili a quelli reali di quanto ci si immagini. Un narratore onnisciente e fuori campo che dà intensità narrativa alle immagini, investendo il film di uno stile nuovo e anticonformista.

 
La Pecora nera (Italia 2010)
Regia: Ascanio Celestini
Sceneggiatura: Ascanio Celestini
Interpreti: Ascanio Celestini, Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Luisa De Santis, Nicola Rignanese
Distribuzione: Bim

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

L’umanità di un re. L’errore, il difetto, la non perfezione, sono i punti cardine di un bel film come Il discorso del re (The King's Speech) diretto da Tom Hooper e magistralmente interpretato da Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter. Il futuro re Giorgio VI (Firth) soffre di balbuzie e non sa come poter curare questo suo difetto che lo porta ad essere, fin da bambino, oggetto di scherno da parte di tutti, a partire dal fratello maggiore, Edoardo VIII. L’incontro con il logopedista Lionel Logue (Rush) gli cambierà la vita e farà uscire il suo lato più intimo, mettendolo sullo stesso piano “dell’uomo comune”.

Il film, che si è già aggiudicato sette candidature ai Golden Globe, delle quali una ha fruttato il Golden Globe per il miglior attore al protagonista Colin Firth, nonché 12 candidature agli Oscar 2011, ha trionfato anche ai recenti Screen Actors Guild Awards, aggiudicandosi il premio come miglior cast e quello come miglior protagonista.

Giorgio VI diviene inaspettatamente re, dopo che il fratello Edoardo VIII abdica per poter sposare la sua amante, Wallis Simpson. Sentendosi inadatto alla sua nuova carica, si affida a questo ‘medico’ sui generis e di origini australiane - che scoprirà poi essere un attore - che gli infonderà quella sicurezza necessaria per guidare una nazione.

I mezzi di comunicazione, in particolar modo la radio, sono gli strumenti principali per la propaganda e per parlare alla nazione, di cui nessun buon sovrano può fare a meno. E "Berti" (nomignolo con cui re Giorgio VI viene chiamato in famiglia, ma anche dal bizzarro Lionel) riuscirà a parlare al cuore degli inglesi, e al suo, in un momento storico drammatico: la Seconda Guerra Mondiale e l’avanzata del nazifascismo. E sarà il cambiamento, la metamorfosi, l’elemento su cui puntare: conoscere se stessi, i propri limiti e le proprie potenzialità per potersi trasformare in uomini rinnovati.

E il fatto che un attore, un trasformista per eccellenza, sia la guida medica, ma anche spirituale, del futuro Re, non è di certo un caso. L’elemento pedagogico del teatro è fondamentale per dare voce al proprio io. Solo così il futuro Re potrà dimostrare a se stesso e al suo popolo di avere la stoffa di un sovrano. L’elemento teatrale, come dicevamo, è spiccato, tanto che il progetto del film è concepito su una sceneggiatura di David Seidler, che durante il processo di sviluppo ha sperimentato una versione per il teatro. E la metamorfosi del capo invaderà la scena.
 
Il discorso del re (Regno Unito/Australia 2010)
Regia: Tom Hooper
Sceneggiatura: David Seidler
Distribuzione (Italia): Eagle Pictures
Fotografia : Danny Cohen
Montaggio: Tariq Anwar
Musiche: Alexandre Desplat

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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