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di Roberta Folatti


Alla fine il più saggio ed equilibrato di tutti sembra essere il piccolo Pramod, bambino indiano che vive in un orfanatrofio nei dintorni di Bombay. Il suo bisogno di dipendenza da una figura adulta e protettiva, non gli offusca le idee, nemmeno nel momento in cui gli viene proposto di scegliere tra la sua “casa” e un luogo molto più confortevole in Europa.

Nel film Dopo il matrimonio non potrebbe essere più accecante il contrasto tra le formicolanti strade indiane che trasudano una miseria incurabile e l’asettica perfezione di Copenaghen o della tenuta miliardaria - con tanto di branco di cerbiatti - appartenente a uno dei protagonisti.
Candidato danese alle nomination all’Oscar, il film di Susanne Bier, che ha avuto un grande successo in patria, è per molti versi interessante e si fa ricordare per le scelte stilistiche originali. Viene da dire fin troppo originali, visto che lasciano chiaramente trasparire lo sforzo di creare una sorta di marchio registico. I primi piani sugli occhi degli attori, su parti del volto, sulle mani che si contraggono nei momenti di alta emotività, sono frequentissimi e ad un certo punto se ne sente persino il peso eccessivo.
Più significativa la scelta della camera a mano che insegue vorticosamente i movimenti fisici e gli spaesamenti psicologici di Jacob e Jorgen, i due protagonisti che in qualche modo rappresentano le due facce della stessa medaglia. Jacob, trattenuto, spigoloso, poco incline ad esprimere apertamente i propri stati d’animo, memore di un periodo in cui si era lasciato andare anche troppo; Jorgen già fisicamente più esuberante, forte della consapevolezza di aver costruito un impero da solo, abituato a disporre di sè e delle persone che ha intorno. Jacob e Jorgen sono i due uomini che Helena ha amato nella sua vita, col primo ha condiviso un’esperienza in India quando erano dei ventenni pieni di ideali, il secondo è il suo attuale marito che sa tutto di lei, anche il segreto che nasconde a Jacob.

“Dopo il matrimonio” fa incontrare, o almeno li fa camminare per un attimo in parallelo, due mondi diametralmente opposti: l’opulento stile di vita dei ricchi occidentali appare un’algida cristallizzazione di privilegi rispetto al frastornante caos di un continente, per la gran parte poverissimo come quello asiatico. In certi momenti del film l’accostamento è talmente stridente da far abbassare lo sguardo.
Ma quando sotto la campana di vetro di una vita ultra agiata si insinua il tarlo della malattia, tutto è destinato a cambiare, le vere priorità tornano alla luce e spingono a scelte forti, anticonvenzionali, ai limiti dell’irrazionalità. Susanne Bier non si chiede le vere ragioni per cui Jorgen decide di investire una somma enorme in un progetto di volontariato in India, non si chiede se lui sia buono o cattivo. Senza dubbio la perdita di una prospettiva di eternità, che la sicurezza economica e il benessere illusoriamente danno, può indurre a riconsiderare tutti i propri valori. E lo stesso effetto può farlo la scoperta di una figlia di cui non si sospettava l’esistenza o l’impatto con la leggerezza di un marito appena sposato.


“Dopo il matrimonio” mette i suoi personaggi davanti a eventi imprevedibili, ma guardando bene li pone in realtà di fronte a se stessi, spogliandoli del superfluo, lasciandoli “nudi” con l’essenziale.
Nella sostanza il piccolo orfano Pramod e il ricchissimo Jorgen sono entrambi solo degli esseri umani, con gli stessi bisogni e sentimenti primari: paura, desiderio d’essere amati, radicamento nel proprio mondo, sgomento nel doverlo lasciare.

DOPO IL MATRIMONIO (2006, Danimarca, Svezia)
Regia: Susanne Bier
Sceneggiatura: Susanne Bier, Anders Thomas Jensen
Cast: Mads Mikkelsen, Rolf Lassgard, Sisde Babett Knudsen
Distribuzione: Teodora Film