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Il Lodo Alfano è incostituzionale. L’ha stabilito ieri pomeriggio la Corte Costituzionale con una sentenza arrivata dopo alcune ore di dibattito. La Consulta ha ritenuto che le norme contenute nel Lodo, approvato nel 2008 dal Parlamento a maggioranza berlusconiana, e che prevedevano la sospensione dei processi per le quattro più alte cariche dello Stato, fossero in violazione del dettato costituzionale, significativamente dell’articolo 3 e del 138 della Carta. Sono gli articoli che stabiliscono rispettivamente il principio di uguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge e le procedure di revisione della Carta stessa, che impongono una legge costituzionale, non una ordinaria.

 

 

La sentenza fa quindi giustizia di un’interpretazione della giustizia a la carte, scellerata nel merito e sguaiata nel metodo, che pensava di garantire impunità perenne per chi invece dovrà rispondere dei reati di cui si è macchiato, ad eccezione di quelli che è riuscito a cancellare dai codici tramite le leggi ad personam, cucitegli su misura dai suoi avvocati e votate disciplinatamente dai suoi peones.

 

Berlusconi è un cittadino italiano sottoposto al sistema di garanzie e di obblighi simile a quello degli altri cittadini italiani. Il tentativo di sottrarlo al giudizio della magistratura per i reati commessi durante e precedentemente all’assunzione del suo mandato, è respinto dal massimo organo giuridico del Paese. Dal Lodo Maccanico a quello Schifani, arrivando al Lodo Alfano, tutti i tentativi di rendere immune l’uomo con il maggior carico di processi e di reati della storia delle istituzioni italiane, potrebbe essere finita ieri. Proprio quel palazzo, situato al fianco del Quirinale, sbarra definitivamente la strada alle ambizioni del ducetto di Arcore e chiude certamente con le sue velleità presidenzialiste.

 

La reazione è stata, ovviamente, scomposta, fuori dal minimo senso della decenza istituzionale. Papi si é lanciato in un sermoncino di quart’ordine definendo la Consulta “toghe rosse”, ritenendosi accerchiato dalla stampa (comunista) dalla Tv (comunista) dai giudici (comunisti) dal presidente Napolitano ( “si sa da dove viene” ha detto..), dicendosi pronto a combattere nelle aule giudiziarie, "che mi obbligheranno a distrarre qualche ora ai miei impegni” ed ha concluso, con la sobrietà che tutti gli riconoscono, con un “vado avanti, viva Berlusconi”. Sì, ha detto proprio così, c’è poco da ridere. La reazione politica del governo alla sentenza della Corte, è comunque isterica, presagio di grande confusione e di rabbia affatto sopita.

 

Un’ora prima che la Corte emettesse la sentenza, Berlusconi aveva convocato Bossi e i suoi reggicoda a palazzo Grazioli. L’obiettivo era forse quello di tastare il polso alla Lega, capirne la disponibilità ad azioni anche eclatanti di rigetto della sentenza, sulla scorta delle minacce a mezzo stampa profferite dal senatur, ultima ratio per tentare di condizionare politicamente i giudici? Ma il farfugliare di Bossi non ha intimidito nessuno ed è quindi stato sostituito dalle dichiarazioni di Bonaiuti che parla di “sentenza politica” e di “governo che andrà avanti nelle riforme” (?). Sono insomma dichiarazioni che tendono a rassicurare l’elettorato forzitaliota, non certo giudizi resi da un luminare del diritto noto per la sua indipendenza di giudizio. L’unico atto dovuto sarebbe stato quello delle dimissioni del Ministro Alfano; ma sarebbe chiedere un sussulto di decoro istituzionale che non risiede nella destra italiana.

 

Ora, all’ordine del giorno, ci sono due ipotesi che però dividono la destra: il ricorso alle urne, immediato, o la riproposizione rapida di un nuovo decreto che aggiri la sentenza della Suprema Corte. La prima ipotesi sarebbe la dimostrazione indiretta della politicizzazione inevitabile della sentenza, tesi del resto anticipata dall’Avvocatura dello Stato nell’ultimo maldestro tentativo di salvare il premier e mettere pressione sulla Corte.

 

Ammesso però che Fini e gli altri fossero convinti della possibile ricandidatura di un uomo politicamente sfinito, il ricorso alle urne vedrebbe una campagna elettorale tutta all’attacco, un referendum su Papi uber alles e con il principale partito d’opposizione ancora senza un segretario. Non è un caso che il Pd si guardi bene dal chiedere le dimissioni del governo.

 

L’ipotesi, comunque, non è facilmente realizzabile, vuoi per l’opposizione del Quirinale, vuoi per la contrarietà (per quanto silente) dei parlamentari berlusconiani, che non hanno alcuna voglia di reimbarcarsi alla ricerca di una nuova legislatura, con nuove spese e nuovi scontri. Peraltro, Berlusconi deve fare i conti anche con l’incognita di perderle le elezioni, fatto che complicherebbe non poco le cose per il cavaliere e le sue aziende.

 

La seconda ipotesi, quella di un decreto lampo da far votare al Consiglio dei Ministri entro 48 ore, indicherebbe la volontà di andare avanti e tentare di recuperare terreno, ma difficilmente otterrebbe la controfirma del Colle, che avrebbe buon gioco a dimostrare il tentativo di aggiramento della sentenza della Consulta.

 

Berlusconi riparte quindi da due sole certezze: quella di vedere riaperti i due processi milanesi per corruzione in atti giudiziari (Mills) e per i reati societari nella vendita dei diritti Tv Mediaset dai quali era fuggito e quella di dover affrontare la Corte d’Appello per il ricorso sul Lodo Mondadori. Ma la sentenza della Consulta, oltre al merito giuridico del dispositivo, traccia una linea temporale e politica: la crisi del berlusconismo è cominciata. Attenzione ai colpi di coda.