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di Liliana Adamo

Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile, è il luogo dov’è nato Sebastião Salgado. Un tripudio di piante, fiori, fiumi, animali, che rivive in funzione mnemonica come un rifugio idealizzato, il paradiso perduto. Considerato il più grande fotografo dei nostri tempi, Salgado si è reso testimone di un aspetto profetico e “materico” del mondo.

Per lui che segue le orme del cuore e dell’azzardo mollando una carriera spianata in banca, il viaggio si compie in cento paesi diversi, osservatore di culture eterogenee, problematiche sociali e aspetti inediti; documentando esodi di massa, genocidi, catastrofi ambientali, il dramma delle comunità minacciate (in primo luogo, gli Indios in Amazzonia), così le polimorfie di grandiosi paesaggi naturali e la bellezza violata del pianeta, sembrano volerlo accompagnare nei suoi lavori più recenti.

Un viaggio forgiato da terra e luce, esito d’esperienze e conoscenze su tutto ciò che ha smosso il corso degli eventi alla fine del Novecento. Salgado si reca in Ruanda e riprende gli orrori del genocidio, in Kuwait, le esplosioni dei pozzi petroliferi, con Genesis, l’ultima, monumentale raccolta di fotografie, rende omaggio alla Terra e alle sue creature, un segno di riconciliazione, testamento d’amore e arte.

Durante il reportage sulla guerra civile in Ruanda, l’incontro con la morte nella prassi più disperata e brutale, Salgado contrae una malattia cui non si conosce la diagnosi. Lasciata l’Africa orientale per raggiungere Parigi alla ricerca di una cura, egli trova la risposta: ha guardato la morte troppo a lungo e la morte gli è entrata dentro, bisogna smettere o altrimenti lui stesso cederà.

Alla soglia dei settant’anni inizia un periodo di cambiamenti e riflessioni. Turbato dall’insensatezza d’alcune esperienze, dalla fotografia e dal mondo intero, Sebastião Salgado si rifugia ad Aimorés, nel suo Brasile, un ritorno alle origini; ma dell’imponente foresta pluviale che si estendeva per metà di un territorio vastissimo, rimane un pietoso 0,5%.

Ancora una volta, l’artista percepisce quel senso di perdita che l’aveva accompagnato durante gli eccidi in Ruanda e nel percorso della sua malattia; riconosce la morte anche qui, nel luogo a lui più intimo: una terra stremata, dove l’utilizzo indiscriminato di materie prime (ferro, manganite e oro), favorisce un’economia distorta a beneficio di multinazionali e classi abbienti, mentre amplifica l’indigenza dei nativi, cancellando il lavoro rurale.

Sebastião Salgado si avvale nuovamente della macchina fotografica. La sua denuncia è potentissima, ripercorre i luoghi che conosceva da ragazzo, espone il suo “paradiso” deforestato: ciò che rimane di una distesa fiorente a perdita d’occhio si riduce a un suolo sterile, renoso, privo di piante e animali. Grazie alla sua fama internazionale esercita pressioni e va oltre; insieme alla moglie, Lélia Deluiz Wanick, elabora un ambizioso progetto di recupero, piantare un albero, poi un altro e un altro ancora… una foresta infine, l’originaria giungla pluviale subtropicale, pressoché distrutta.

Converte in “quartier generale”, il ranch che il padre aveva gestito in passato, crea una comunità a sviluppo ambientale il cui impegno è sensibilizzare, educare, promuovere la ricerca scientifica. Nasce così l’Instituto Terra, che avvia il più grande piano di riforestazione su scala globale; un programma no-profit, continuo e sistematico, per ridare linfa vitale a zone complesse, puntando sul ripristino della biodiversità locale.

Il lavoro si concentra soprattutto a Serra da Mantiqueira (1220 metri d’altitudine), sul delta del Rio Doce (letteralmente "fiume Dolce"), area ricca d’affluenti, eclettici ecosistemi, varietà di microclima, sede della più grande miniera a cielo aperto del mondo, oggetto di un disastro ambientale di vaste proporzioni con milioni di metri cubi di fanghi tossici e acque acide riversate nel maggiore dei suoi emissari, il Rio Carmo. Un intervento non facile, ma grazie al quale l’acqua continua a scorrere dalle sorgenti naturali, reintegrando gli ambiti necessari affinché specie animali a rischio d’estinzione, possano essere salvate.

“Pensiamo all’elemento acqua per ogni attività della nostra vita... ”. Sostiene Salgado: “…Ma l’acqua non si ottiene se non ci sono alberi. Quando c’è pioggia in un luogo senza alberi, in pochi minuti, l’acqua arriva nei torrenti, portando terriccio, distruggendo le nostre sorgenti, danneggiando i fiumi e non c’è umidità da trattenere. Quando ci sono alberi, il sistema di radici trattiene l’acqua. Tutti i rami degli alberi, le foglie che cadono, creano un’area umida, l’acqua si trattiene per molti mesi nel sottosuolo per arrivare ai fiumi e mantenere le nostre sorgenti…”.

Bulcão Farm, ex fattoria paterna, sede operativa del progetto Instituto Terra, coordina 1.754 acri, 1.502 dichiarati Patrimonio Privato Riserva Naturale (PNHR). Nel 2004, la buona pratica fa sì che la confederazione di Minas Gerais dia impulso alla Categoria della Riserva Privata per il Restauro Ambientale (PRER), sollecitando ogni iniziativa privata a muoversi (coraggiosamente) in tal senso. Il primo impianto ha avuto luogo nel dicembre 1999; in un work in progress estenuante, l'Instituto Terra è in fase di completamento nel recupero di tutti i lotti distrutti. Per il Brasile moderno, è un risultato senza precedenti.

La prospettiva di rivalorizzazione ambientale, come pure di un patrimonio storico inestimabile, ottiene tale prestigio e attendibilità da trascinare numerosi sostenitori e un’ingente raccolta di fondi. Il beneficio a lungo termine si estende alle popolazioni autoctone: indicativo è il caso dei Quilombola, discendenti degli indigeni fuggiti dalla schiavitù, che rischiavano di scomparire per sempre, insieme alla cultura e all'identità originarie del Brasile.

Fra acqua e terra, la Foresta Atlantica è depositaria di un ecosistema fra i più straordinari per l’intero continente americano. Con una superficie di 400.000 miglia quadrate (lungo l’asse del Rio Grande, da nord a sud), un tempo si spingeva fino all'estrema Argentina e il Paraguay. Ciò che rimane del “polmone terrestre”, è un deposito di biomasse ancora ricchissimo di biodiversità che, per quanto minacciato, rimane punto fondamentale per ripristinare in origine, l'equilibrio perduto.

In pratica, un record di varietà botaniche: 454 specie in una singola area (appena 2,5 acri) a sud di Bahia, 476 nel dipartimento chiamato Espirito Santo, zona montuosa, di modeste dimensioni. La devastazione di queste regioni spiega il cambiamento climatico avvenuto drasticamente, conseguenti inondazioni e altre calamità, normalmente attribuite a fattori “naturali”.

Obiettivo è reintegrare gli habitat derivanti su trentasette milioni di acri; dal primo albero, che rievoca quel dicembre 1999, fino al 2050, a lavoro concluso. A oggi, 17.000 acri di terreno sono stati riportati a nuova vita, un milione di piantine curate nelle serre, aspetta d’essere collocato nel suo humus primario, come la Mata Atlantica, tipica flora pluviale subtropicale.

Molte aree circostanti cominciano a seguire il sogno di Salgado, lo sforzo diventa collettivo per restituire dignità e speranza: una Biosphere Reserve, eredità di un uomo e dei suoi conflitti interiori a una pluralità d’individui e al futuro dell’intero pianeta.