Stampa

La risoluzione approvata lunedì dal gabinetto israeliano del primo ministro/criminale di guerra, Benjamin Netanyahu, ha tutto l’aspetto di una soluzione finale al “problema” palestinese nella striscia di Gaza. Occupazione militare permanente, espulsione o confinamento degli abitanti in campi di concentramento, restrizioni estreme nella distribuzione di cibo e aiuti, sterminio puro e semplice tramite fame, malattie e violenza sono le caratteristiche principali del piano che verrà implementato a breve da Tel Aviv. Mentre media e politici occidentali cercano di presentare la nuova iniziativa israeliana come un mezzo per fare pressioni su Hamas e ottenere la liberazione degli “ostaggi”, Netanyahu e i suoi complici non hanno ormai più nessuno scrupolo nel descrivere il piano per quello che realmente rappresenta.

Da due mesi, dopo l’abbandono unilaterale della tregua sottoscritta a gennaio, Israele impone un blocco totale agli ingressi di cibo, acqua, medicinali e altri beni di prima necessità nella striscia, col risultato di avere creato una situazione a dir poco catastrofica. Anche nelle parole di Netanyahu si legge l’intenzione di passare ora alla “mossa conclusiva” del genocidio palestinese. Le forze armate sioniste avranno il compito di occupare ulteriormente il territorio di Gaza, creare una “zona cuscinetto” più ampia, dove in pratica ogni singolo edificio verrà demolito, e spingere forzatamente gli abitanti verso un’area ristretta nella porzione meridionale della striscia.

Qui, i palestinesi rimasti verranno sottoposti a pressioni enormi per lasciare la loro terra, anche se non è chiaro quali paesi saranno disponibili ad accoglierli. La differenza rispetto alle operazioni messe in atto finora da Israele è che le forze di occupazione resteranno sul territorio di Gaza in maniera indefinita, in attesa probabilmente di una futura annessione formale. Ancora più espliciti di Netanyahu nel discutere gli obiettivi del piano sono stati i due membri più radicali del gabinetto di estrema destra. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha ammesso che Israele “occuperà finalmente la striscia di Gaza”, visto che non esistono ormai più timori nell’utilizzo della parola “occupazione”.

Quest’ultimo ha chiarito che non ci sarà nessun passo indietro dai territori occupati, nemmeno in caso di liberazione dei prigionieri israeliani ancora nelle mani di Hamas. La liberazione degli “ostaggi” non è mai stata d’altronde la priorità del regime di Netanyahu, ma anzi la loro morte era ed è considerata uno sviluppo positivo per superare le resistenze interne alla totale occupazione di Gaza e al completamento del genocidio palestinese. L’altro elemento dai tratti maniacali del gabinetto israeliano, il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha invece ribadito che il blocco totale degli aiuti destinati a Gaza sarà addirittura rafforzato.

Le dichiarazioni pubbliche circa la distruzione letterale di un intero popolo e l’intensificazione in diretta televisiva di distruzione, uccisioni di massa di civili, bombardamenti di strutture sanitarie e umanitarie continuano a lasciare di fatto indifferenti i governi di praticamente tutto il mondo. Le responsabilità maggiori sono da attribuire all’Occidente, che continua a predicare il rispetto dei diritti umani e democratici pur appoggiando o giustificando le mostruosità israeliane, e dei regimi arabi, a tutti gli effetti complici del genocidio.

Il piano appena approvato all’unanimità dal governo di Tel Aviv segue di poco più di un mese la creazione, da parte delle forze di occupazione (IDF), di un’apposita agenzia con il compito di presiedere al “trasferimento” dei palestinesi di Gaza, ovvero alla loro espulsione forzata. Quello che sta prendendo forma non è in sostanza molto diverso dal piano annunciato a febbraio da Trump in termini che molti avevano definito stravaganti o irrealizzabili. Una parte considerevole dei palestinesi costretti verso i campi di detenzione nel sud della striscia morirà così di fame, malattie e, molto probabilmente, sotto il fuoco israeliano. I sopravvissuti avranno invece come prospettiva la cacciata definitiva dalla loro terra.

La stampa internazionale ha scritto che l’implementazione del piano finale verrà rinviata a dopo la visita di Trump in Medio Oriente, al via da martedì della prossima settimana. In questo modo, resterebbe aperto un piccolissimo spiraglio per raggiungere un accordo con Hamas per la liberazione dei prigionieri israeliani. In realtà, la pausa prevista serve a evitare al presidente americano l’imbarazzo dell’accelerazione del genocidio durante la sua presenza nella regione. D’altra parte, Netanyahu continua a respingere qualsiasi proposta di tregua definitiva presentata da Hamas e che include condizioni in grado di risolvere la crisi. Israele, da parte sua, avanza invece ipotesi di accordo totalmente inaccettabili per la resistenza palestinese. Uno dei leader di Hamas, Osama Hamdan, in una recente intervista al sito Drop Site News, ha definito quelle israeliane come proposte ingannevoli che garantirebbero al massimo lo stop temporaneo dell’aggressione militare e l’ingresso di aiuti umanitari nella striscia per alcuni giorni, seguito da una rinnovata offensiva una volta ottenuta la liberazione degli “ostaggi”.

Hamas, inoltre, insiste legittimamente nel rifiutare la richiesta di consegnare le proprie armi o di abbandonare la striscia. La resa di Hamas e delle altre componenti della resistenza non porterebbe alla pace e al sollievo della popolazione palestinese, ma alla completa sottomissione al regime di occupazione, alla perdita definitiva della propria terra e, comunque e con ogni probabilità, all’espulsone forzata. La resistenza armata, caratterizzata da Israele e dai suoi alleati come “terrorismo”, è l’unico strumento in grado di lasciare aperta una prospettiva di liberazione. Per questa ragione, lo stato ebraico, che agisce esso stesso come un’entità terroristica, chiede come requisito imprescindibile per un cessate il fuoco la sostanziale liquidazione di Hamas. Questo obiettivo è condiviso dalla ultra-corrotta e ultra-screditata Autorità Palestinese, che, infatti, si astiene dal criticare Israele nonostante l’apocalisse di Gaza, mentre chiede ripetutamente il disarmo delle fazioni palestinesi che combattono il regime di occupazione.

La sospensione del piano israeliano in attesa che si esaurisca la visita in Medio Oriente di Trump e altri elementi emersi in questi giorni indicano in ogni caso l’aumento delle pressioni e delle divisioni interne al regime sionista per via del discredito crescente che genera a livello globale la condotta criminale dello stato ebraico. La rete pubblica israeliana Kan 11 ha dato notizia di uno scontro acceso nel fine settimana tra i membri di estrema destra del gabinetto Netanyahu e il capo di Stato Maggiore, generale Eyal Zamir, sulla gestione degli aiuti umanitari. Mentre quest’ultimo ricordava gli obblighi di Israele secondo il diritto internazionale, i primi ribadivano la loro opposizione all’ingresso di beni di prima necessità nella striscia.

Se le fissazioni messianiche di personalità oltre il limite del patologico, come quelle di Ben-Gvir e Smotrich, escludono qualsiasi scrupolo morale o umanitario, altri invece percepiscono se non altro i rischi politici, nonché di carattere giudiziario, insiti nella conduzione e nella complicità di quello che è un genocidio a tutti gli effetti. L’amministrazione Trump è in tutto e per tutto sotto il controllo sionista e non mostra la minima intenzione di voler limitare le azioni di Netanyahu, ma, quanto meno, cerca di introdurre un meccanismo che possa alleviare, o dia l’impressione di potere alleviare, le indicibili sofferenze imposte ai palestinesi di Gaza.

La CNN ha ad esempio citato fonti del dipartimento di Stato che anticipano nei prossimi giorni un annuncio relativo alla creazione di un piano per la distribuzione degli aiuti nella striscia. I particolari emersi finora indicano che esso risulterà inefficace, visto che dovrà escludere dalla gestione degli aiuti Hamas, che continua a governare Gaza, e che essi saranno affidati a una non meglio definita “fondazione” privata invece che alle Nazioni Unite o alle organizzazioni internazionali già operanti sul territorio.

Si tratterà in definitiva di una goccia nell’oceano e, prima o poi, anche l’amministrazione Trump sarà chiamata ad affrontare le proprie responsabilità nel genicidio in corso. Oltre a ciò, la Casa Bianca rischia di finire imbrigliata in un conflitto di più vasta portata per difendere Israele, come dimostra la vicenda sempre più esplosiva in relazione allo Yemen e all’Iran. Domenica, le forze di Ansarallah (“Houthis”) hanno lanciato con successo un missile ipersonico contro l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, eludendo le difese aeree di Israele e Stati Uniti. Per tutta risposta, il regime sionista, gli USA e il Regno Unito hanno bombardato indiscriminatamente alcune città dello Yemen.

Il governo di Ansarallah ha annunciato un blocco aereo di Israele, in aggiunta a quello navale, e invitato le compagnie internazionali a cancellare i voli verso lo stato ebraico, cosa che molte di queste ultime hanno fatto immediatamente. Questa escalation, facilmente evitabile con lo stop delle operazioni militari israeliane a Gaza, minaccia così di intensificare gli attacchi contro lo Yemen da parte di Washington e Tel Aviv, anche se Ansarallah non intende fare passi indietro dall’impegno a combattere a fianco dei palestinesi e del fronte della resistenza.

In questa spirale, l’impossibilità da parte di USA e Israele di piegare lo Yemen rischia di spingere Trump e Netanyahu verso una guerra contro la Repubblica Islamica, che entrambi ritengono in ultima analisi responsabile delle azioni degli “Houthis”. Guerra per la quale Israele spinge da tempo, ma che, allo stesso modo, non può essere vinta e che quindi prospetta soltanto una nuova e più vasta catastrofe in tutta la regione mediorientale. Martedì, Trump ha annunciato a sorpresa lo stop all’aggressione militare contro lo Yemen, citando una qualche intesa informale con Ansarallah che prevedrebbe la fine dei bombardamenti contro le navi americane nel Mar Rosso. La versione del presidente americano sarà tutta da verificare, ma l’eventuale accordo potrebbe al massimo ridurre solo parzialmente le tensioni, visto che comunque non sembra riguardare Israele.