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“Abbiamo bisogno di un’industria della difesa forte, dato che la nostra Unione si assume una maggiore responsabilità per la propria difesa: non è solo una questione di sicurezza, ma anche di competitività” ha dichiarato il 12 maggio il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen in un messaggio pubblicato sui social a margine del suo intervento al dialogo strategico sul futuro dell’industria della Difesa europea.

La presidente della Commissione ha detto di aver “incontrato i leader dell’industria europea per sentire da loro” come l’Ue “può sostenere ancora di più questo settore cruciale. Il dialogo ha sottolineato il ruolo cruciale dell’industria europea della difesa nella salvaguardia della sicurezza europea in un panorama geopolitico in rapida evoluzione”.

Von der Leyen si è concentrata nel suo intervento sulla necessità per l’industria europea “di rispondere su scala e in tempi rapidi“.

Riconoscendo gli sforzi compiuti dall’industria dopo l’inizio della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, citando l’esempio dell’aumento significativo della produzione e l’apertura di nuove linee di produzione ha parlato delle persistenti sfide strutturali che il settore deve affrontare. Tra queste sfide, secondo von der Leyen, ci sono la frammentazione della domanda e dell’offerta, gli ostacoli normativi, l’accesso alle materie prime, la necessità di tenere il passo con cicli di innovazione rapidi e cicli di feedback più brevi, l’accesso ai finanziamenti, e l’accesso alla manodopera qualificata (soprattutto Stem).

Per affrontare questi problemi, la Commissione ha ribadito il suo impegno a lavorare a stretto contatto con le parti interessate del settore, fa sapere Bruxelles. L’industria è invitata a condividere le proprie valutazioni e informare le prossime iniziative, tra cui il pacchetto Omnibus sulla Difesa, che sarà presentato nel giugno 2025. Questo pacchetto razionalizzerà le norme e i regolamenti che riguardano le certificazioni, le autorizzazioni, gli appalti congiunti e altre questioni.

I partecipanti si sono impegnati in discussioni costruttive su alcune aree chiave, come la garanzia degli investimenti, il rafforzamento della cooperazione industriale nel settore della difesa, la promozione dell’innovazione e del progresso tecnologico, la sicurezza delle catene di approvvigionamento e l’investimento nelle competenze e nello sviluppo della forza lavoro.

Da tempo la UE tende ad attribuire alla diversificazione di programmi e stanziamenti dei singoli stati membri le difficoltà ad attuare un ampio programma europeo: un approccio legittimo per una Commissione che punta a sottolineare il rischio di guerra con la Russia e le carenze nel settore militare come leve per progredire rapidamente verso un’integrazione militare dell’Europa che nessun trattato però prevede né si vedono all’orizzonte obiettivi perseguibili nella costituzione di una Federazione Europea che consenta la costituzione di forze armate comuni o la definizione di una politica estera comune.

In realtà i problemi strutturali che oggi rendono politicamente impossibile ed economicamente insostenibile il massiccio riarmo dell’Europa sono prettamente finanziari e industriali. Modificare l’impostazione delle industrie europee per la Difesa verso produzioni di massa è un processo che richiede forti investimenti, diversi anni, molte migliaia di nuovi lavoratori specializzati non reperibili oggi sul mercato e soprattutto un agevole e conveniente accesso a materie prime, acciaio, esplosivo e soprattutto energia a buon mercato.

Condizioni inesistenti oggi in Europa dove da quasi tre anni la rinuncia al gas russo a buon mercato ha determinato calo della produzione industriale, progressiva de industrializzazione, incremento dei costi energetici, inefficienza ed elevati costi delle linee di approvvigionamento e difficoltà a reperire materie prime sempre più costose.

Costi triplicati

Fonti militari hanno riferito ad Analisi Difesa che rispetto al 2021 il costo di quasi tutti i prodotti militari è triplicato: elemento che induce a valutare che se oggi le nazioni europee riuscissero a triplicare la quota del bilancio della Difesa e della Funzione Difesa dedicata agli investimenti, con risorse finanziarie triplicate potremmo acquistare lo stesso numero di armi, equipaggiamenti e munizioni di quattro anni or sono.

Negli ultimi mesi del 2024 fonti industriali rilevavano ad Analisi Difesa che tra il 2021 e il 2024 il prezzo medio dell’esplosivo a uso militare è lievitato del 90%, l’acciaio del 59%, l’alluminio del 50%, i circuiti stampati del 64% e la carpenteria leggera di oltre il 100%.

Un proiettile d’artiglieria da 155 mm (senza spoletta, sistema di guida e carica di lancio) prodotto in Europa costa all’acquirente tra i 2.500 e i 4.000. Se si considera che nel conflitto in Ucraina i russi arrivano sparare anche 15/18 mila proiettili al giorno e gli ucraini 5/6mila si comprende quale sforzo finanziario sia richiesto oggi per riempire i magazzini e sostenere la guerra dell’Ucraina, peraltro nei limiti delle capacità produttive europee e statunitensi.

Le bombe d’aereo Mk 82 da 227 chili sono passate, a seconda del tipo di esplosivo impiegato, da 6mila a 9mila e da 12 mila a 20 mila euro tra il 2021 del 2024. Costi che riguardano il solo “corpo bomba”, senza i sistemi di guida che le rendono precise. Allo stesso modo è cresciuto il costo delle Mk 83 da 554 chili mentre le MK 84 da 908 chili sono raddoppiate di costo, da 30 mila euro nel 2021 a 60 mila nel 2024.

Queste considerazioni aiutano a comprendere come l’incremento delle spese militari gonfierà i bilanci della Difesa ma non consentirà di acquistare maggiori quantità di sistemi d’arma o munizioni. Anzi, l’aumentato costo dell’energia, dell’esplosivo, delle materie prime in aggiunta alla difficoltà di reperimento delle stesse nelle quantità necessarie, comporta che anche stanziando maggiori risorse finanziarie si potranno acquistare meno prodotti rispetto al 2021.

Il caso della Gran Bretagna è emblematico: con una spesa militare incrementata fino a raggiungere il 2,3 per cento del PIL nel 2025, con un incremento del 15 per cento rispetto al 2023, Londra ha dovuto radiare una cinquantina di aerei da combattimento Typhoon Tranche 1, 30 elicotteri CH-47 e Puma, 55 droni e 5 navi militari oltre a trovarsi con il livello minino di effettivi dai tempi delle guerre napoleoniche. Inoltre ha radiato tutti i semoventi d’artiglieria AS 90 che verranno rimpiazzati solo dal 2030 da nuovi obici ruotati.

In Germania, dove il cancelliere Frederich Merz ha dichiarato di voler logorare la Russia costringendola a una guerra prolungata in Ucraina fino a convincerla ad accettare un cessate il fuoco, il Centro Studi Bruegel e il Kiel Institute hanno messo a confronto i costi di alcuni mezzi terrestri occidentali con gli omologhi russi e cinesi.

In tema di carri armati un Leopard 2 A8 costa oggi 29 milioni di euro contro i 17,5 di un M1A2 Abrams statunitense, i 9,2 di un più vecchio Leopard 2A6, i soli 4,1 milioni di un T90 russo e i 2,3 milioni del cinese Type 99A.

Considerato che la guerra in Ucraina ha confermato che non esistono armi risolutive o “game changer” e che nessun carro armato è invulnerabile vale la pena sottolineare che con il costo di un singolo nuovissimo Leopard 2A8 si producono 7 T-90.

Il confronto tra semoventi d’artiglieria non cambia i termini della questione: il cingolato tedesco Pzh 2000 costa 17 milioni di euro, circa il triplo dei ruotati Caesar francese e Zuzana slovacco ceco (5,9 milioni) mentre il sudcoreano K9 Thunder che tanto successo sta avendo in Europa costa 3 milioni e il russo 2S19 MSTA-S appena 1,4 milioni, meno dell’ucraino “2S2 Bohdana (2,3 milioni) che ha lo stesso prezzo del cinese Norinco PZL 05.

Il semovente russo costa ancor meno del vecchio M-109, ormai datato e consegnato all’Ucraina da molti alleati occidentali (Italia inclusa) in diversi esemplari il cui prezzo è valutato 1,6 milioni mentre con i costi di un Pzh-2000 i russi realizzano 12 MSTA-S.

L’Osservatorio dei conti pubblici italiani ha recentemente rilevato che gli aerei da combattimento occidentali più avanzati hanno raggiunto nel 2024 un costo pari a 169 milioni di euro per un Eurofighter Typhoon, 152 milioni per un F-35 e 119 milioni per un Rafale.

Difficile stabilire il prezzo di un Sukhoi Su-35 russo, che i cinesi pagarono 20 milioni di euro ad esemplare nel 2015: se oggi il suo costo fosse anche raddoppiato rappresenterebbe sempre un terzo o un quarto dei suoi concorrenti occidentali.

Certo il costo di un sistema d’arma va misurato tenendo conto di tante voci, inclusi gli armamenti e il supporto logistico, ma resta indubbia la differenza di prezzo tra i prodotti europei e occidentali rispetto ai concorrenti russi o cinesi.

Le motivazioni

Come la Commissione Europea, anche gli analisti tedeschi attribuiscono il fenomeno alla frammentazione del mercato Ue, all’assenza di un mercato unico, alle commesse dei singoli stati e all’assenza di un sistema di acquisizioni comune a tutti gli stati membri.

“I governi europei ordinano quantità relativamente piccole di armi e munizioni. Di conseguenza, è difficile beneficiare delle economie di scala, che in linea di principio porterebbero a una produzione più rapida ed economica e a volumi di produzione più elevati. Ciò è dovuto anche a un mercato frammentato per i prodotti della difesa, in cui ogni paese dell’UE ordina separatamente” si legge nello studio di Bruegel.

A queste motivazioni occorrerebbe però aggiungerne altre, come le condizioni economiche, vero fattore penalizzante per l’Europa. A differenza della Russia, che dispone di tutte le materie prime e di energia infinita a prezzo stracciato, l’Europa paga oggi l’assenza delle materie prime, il costo dell’energia più alto tra tutte le aree industrializzate del mondo al punto da aver costretto molte acciaierie a chiudere almeno parte degli stabilimenti mentre in Polonia la Huba Czestochowa è stata rilevata direttamente dal ministero della Difesa.

Vi è poi un’altra differenza non irrilevante tra il sistema produttivo russo e quello Occidentale che contribuisce a far lievitare i costi del riarmo europeo.

Dal 2022 tutte le aziende occidentali del settore Difesa, su entrambe le sponde dell’Atlantico, hanno visto gonfiarsi gli ordini, i ricavi e le quotazioni borsistiche con i relativi dividendi per gli azionisti che in Europa sono spesso anche gli stessi stati.

L’apparato industriale russo, incentrato sul colosso pubblico Rostec (800 tra aziende e centri di ricerca situati in 60 regioni per un totale di oltre 600 mila dipendenti), nel momento in cui ha ridotto le esportazioni per soddisfare le esigenze belliche nazionali ha ridotto drasticamente i profitti perché “la società ha preso più ordini dalla Difesa, con una redditività nulla o addirittura negativa”, come ha sottolineato l’amministratore delegato di Rostec, Sergei Chemezov.

Potremmo quindi affermare che l’industria della Difesa russa lavora per la Patria mentre quella occidentale per i dividendi degli azionisti.

Al tema delle armi e munizioni vanno aggiunte le difficoltà che si riscontrano in tutto l’Occidente non solo ad arruolare personale militare ma anche solo a mantenere gli attuali risicati numeri di militari professionisti in servizio.

Se anche fosse possibile incrementare sensibilmente gli organici con volontari o un ritorno almeno parziale alla leva militare, occorrerebbe istituire nuove strutture logistiche (caserme, ospedali militari, ecc.) oltre ad equipaggiare, addestrare e retribuire le nuove reclute con tempi che richiederebbero diversi anni e costi stimabili in molti miliardi di euro. Peraltro in un contesto di scarso sostegno sociale a un riarmo che drenerebbe fondi da welfare e spesa sociale e comporterebbe ulteriore indebitamento pubblico.

Per tutte queste ragioni, il massiccio riarmo dell’Europa, nella misura in cui viene oggi da più parti evocato, appare politicamente inattuabile e finanziariamente insostenibile.

Le nazioni aderenti alla NATO avrebbero dovuto iniziare a potenziare le proprie forze militari almeno dal Vertice di Bucarest che nel 2008 ufficializzò la volontà di incorporare nell’Alleanza Atlantica sia l’Ucraina che la Georgia. Quasi una dichiarazione di guerra alla Russia, da cui però abbiamo continuato a importare quell’energia in quantità infinita e a basso costo che avrebbe consentito produzioni militari a prezzi ragionevoli, oggi non più possibili.

Meglio sarebbe oggi che l’Europa contribuisse a trovare una soluzione negoziata al conflitto russo-ucraino per ritornare ad avere condizioni favorevoli di approvvigionamento e costo dell’energia oltre che di accesso alle materie prime per dare vita almeno a quei programmi di potenziamento considerati più urgenti in ambito Ue e dai singoli stati membri.

Le carenze in battaglia dei mezzi tedeschi

Circa i mezzi di produzione tedesca, oltre al costo elevato va tenuto in considerazione anche il recente rapporto della Bundeswehr, reso noto in aprile da alcuni media in Germania, che evidenzia carenze emerse dall’impiego bellico in Ucraina.

Un documento interno, trascrizione di una lezione tenuta a circa 200 giovani ufficiali a Delitzsch (Sassonia), riporta le esperienze dei soldati ucraini e i problemi riscontri nell’impiego delle forniture militari provenienti dalla Germania. I resoconti riferiscono che il semovente Panzerhaubitze 2000 (Pzh 2000) è un “sistema d’arma eccezionale”, ma mostra “una vulnerabilità tecnica così elevata che la sua idoneità alla guerra è seriamente messa in dubbio”.

Il vecchio carro armato Leopard 1A5 ha dimostrato di essere “affidabile” ma viene spesso utilizzato dagli ucraini “solo come artiglieria improvvisata a causa della sua debole corazza” mentre il più recente Leopard 2A6 presenta un costo delle riparazioni così elevato da renderle in molti casi non convenienti.

Anche i rapporti circa il sistema di difesa aerea IRIS-T sono critici: il sistema missilistico è definito molto efficace ma il costo dei missili è troppo alto e “non erano disponibili nelle quantità necessarie”.

Anche il sistema statunitense Patriot fornito dalla Germania viene indicato come un “eccellente sistema d’arma”, ma inadatto all’impiego campale perché i veicoli da trasporto prodotti dalla MAN sono troppo vecchi e non sono più disponibili pezzi di ricambio.

Paradossalmente gli elogi maggiori li hanno ricevuti il semovente antiaereo Gepard e il veicolo da combattimento cingolato Marder, mezzi rustici e da molto tempo radiati dai reparti tedeschi, definiti “efficienti e affidabili”.

Le esperienze ucraine sintetizzate nel documento valutano che “quasi nessun grande pezzo di equipaggiamento tedesco è completamente adatto alla guerra”. Spiegel ha riferito che né il Ministero della Difesa né KNDS Germania (che produce Leopard e Pzh-2000) hanno voluto commentare il documento classificato.

Negli ambienti militari tedeschi, nota sempre il giornale, è stato rilevato che le armi vengono utilizzate in Ucraina in condizioni estreme, il che comporta una forte usura mentre l’addestramento impartito in Germania al personale ucraino spesso non era sufficiente per la formazione tecnica sulla manutenzione e la cura dei mezzi e dei sistemi d’arma.

Inoltre in Ucraina mancano le infrastrutture in prima linea per garantire le catene di approvvigionamento delle riparazioni e manutenzioni i cui centri di assistenza risultano spesso ubicati lontano dalla prima linea.

 

di Gianandrea Gaiani

fonte: Analisi Difesa