È arrivato il momento di sospendere Israele dalle Nazioni Unite. Qualcuno può pensare che sia science fiction, ma la richiesta all’Assemblea generale dell’Onu è arrivata l’anno scorso dal relatore speciale per il diritto al cibo, Michael Fawkri, con l’autorevole denuncia dell’“attacco di Israele al sistema Nazioni Unite”. La revoca delle credenziali di Israele è invocata anche da Francesca Albanese, relatrice speciale sui diritti dei palestinesi nei Territori Occupati. Dopo decenni di illegale occupazione della Palestina, la sfrenata impunità di Israele è culminata nel “dissolvimento dell’ordine internazionale a Gaza” e nel “deliberato progetto di estinzione dei palestinesi”, si legge in un comunicato da lei promosso e firmato da 19 relatori speciali.
Nessuno dei paesi chiamati a decidere ha “le mani pulite quando si tratta di diritti umani”, ma ciò secondo Albanese non vanifica la necessità di risignificare la giustizia internazionale, se ha ancora un senso. Può sembrare velleitaria. Ma la sospensione di Israele dall’Onu darebbe un vigoroso segnale alla forza del diritto sancito nel XX secolo. Tardivo, certo. Ma se non ora, quando?
La riduzione delle norme internazionali a carta straccia non è una novità nella storia dell’Onu, ma venti mesi di offensiva militare a Gaza, i bombardamenti tutt’altro che chirurgici sul Libano e quelli degli ultimi giorni sull’Iran, proiettano un’escalation imprevedibile sui già fragili scenari della geopolitica, all’indomani della pandemia. Possono le Nazioni unite, stremate dal diritto della forza di Netanyahu, trovare nuova legittimazione e credibilità dopo ottanta anni? Tecnicamente sì.
Gli articoli 5 e 6 della Carta dell’Onu prevedono la possibilità di sospendere o espellere uno stato membro quando questo abbia “con persistenza violato i Principi contenuti nella presente Carta”.
La decisione richiede però il consenso della Assemblea generale e “la raccomandazione del Consiglio di sicurezza”. Quanto basta direte voi per trasformare l’ipotesi in una mission impossible, considerato l’ostinato solitario veto USA degli ultimi mesi, e la decisione di Tel Aviv di bombardare l’Iran per forzare il cambio di regime, con il beneplacito del G7. Agghiacciante déjà-vu.
Il percorso è impervio ma richiede soprattutto iniziativa dei governi. il palese rifiuto di Israele di aderire alla Carta trova conferma nell’opinione legale dell’International Court of Justice. Esiste poi il precedente della sospensione dall’Onu del Sudafrica, conseguita in pochi mesi nel 1974 passando per una decisione del Comitato credenziali e l’ampio sostegno a una risoluzione (la 3207) dell’Assemblea. Le deliberazioni furono fatte valere per negare a Pretoria la partecipazione alle sessioni dell’Assemblea Generale dell’Onu malgrado il veto di USA, Francia e Gran Bretagna al Consiglio di sicurezza. Il diniego terminò nel giugno 1994 con la fine dell’apartheid.
La strategia di designare Israele un governo a segregazione razziale - sulla scorta della risoluzione 3068 e di numerosi pronunciamenti sulle politiche discriminatorie di Tel Aviv - è una ragionevole pista alternativa che gode di vasto consenso della società civile e di accreditati giuristi.
Non esiste un altro stato al mondo che l’abbia mai fatta così franca. La storia è nota, ma ha dell’incredibile se si fa la conta delle risoluzioni Onu disattese da tutti i governi di Israele: 45 del Consiglio dei diritti umani (dal 2013 a oggi), 131 del Consiglio di sicurezza, un numero infinito di risoluzioni della Assemblea generale a partire dal 1956 – solo dal 2015 al 2023, l’assembla ha adottato 154 risoluzioni su Israele, 71 su tutti gli altri stati. Nel 2024, 17 risoluzioni sono state approvate per fermare Netanyahu. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre Tel Aviv ha puntato al redde rationem, dopo decenni di ostilità con l’Onu. Il Segretario General bollato dal governo persona non grata. L’agenzia per i rifugiati palestinesi Unrwa messa al bando. I peace keepers in Libano deliberatamente attaccati dall’esercito israeliano. E poi i 237 giornalisti uccisi a Gaza, in Libano e in Iran, gli oltre 400 operatori umanitari e 1300 sanitari uccisi a Gaza dall’ottobre 2023. Il numero più alto nella storia dell’Onu. Nei 600 giorni di abisso della convivenza.