Il consolidamento della posizione di potere del dittatore egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha ricevuto una spinta decisiva questa settimana con l’approvazione da parte del parlamento de Il Cairo di alcuni emendamenti alla Costituzione che gli permetteranno di rimanere alla guida del paese almeno fino al 2030. I provvedimenti sono stati ratificati con un’amplissima maggioranza dall’assemblea e a breve saranno sottoposti a un referendum popolare che, è facile prevedere, sarà largamente favorevole al presidente egiziano.

 

 

Con la modifica all’articolo 140 della Costituzione del 2014, la durata del mandato presidenziale è stata portata da quattro a sei anni. I presidenti del paese nordafricano potranno rimanere in carica per un massimo di due mandati. Un’altra modifica alla carta costituzionale è stata poi introdotta ad hoc per Sisi, In base a essa, l’ex generale si vede allungare a sei anni l’attuale mandato, al termine del quale, nel 2024, potrà ricandidarsi nuovamente.

 

La versione finale degli emendamenti approvati martedì risulta in parte diversa dalla bozza circolata un paio di mesi fa, che prevedeva la permanenza al potere di Sisi fino al 2034. La data del 2030 non è però da ritenersi definitiva per Sisi. Infatti, il presidente del parlamento egiziano, Ali Abdel Aal, ha affermato in questi giorni che entro il prossimo decennio sarà necessario scrivere una nuova Costituzione, così che Sisi avrà potenzialmente la possibilità di rimanere al suo posto oltre questa data, sempre che le sue condizioni fisiche e quelle del paese lo consentano o che non sia già stato spazzato via da una nuova rivoluzione.

 

Sisi era stato eletto per la prima volta nel 2014, un anno dopo il colpo di stato contro il presidente democraticamente eletto Mohamed Mursi e la successiva sanguinosa repressione dei sostenitori di quest’ultimo, espressione del partito/organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani. Lo scorso anno, l’ex generale era stato poi riconfermato in un’elezione difficilmente catalogabile come tale. Alla vigilia del voto, Sisi e i militari avevano eliminato tutti i possibili rivali credibili, tramite arresti, provvedimenti pseudo-legali e pressioni varie, tanto che l’unico altro candidato era stato un sostenitore del presidente, Moussa Mostafa Moussa, entrato in corsa poco prima dell’apertura delle urne per evitare la farsa assoluta. Sisi era stato alla fine eletto con una percentuale di poco inferiore al 97%.

 

Il potere di fatto assoluto che Sisi detiene oggi in Egitto nasconde a ben vedere la realtà di un regime fragile e legittimato solo dalla forza e dalla violenza. Dietro all’ostentazione della potenza di uno stato che sembra non lasciare spiragli alla libertà e a qualsiasi forma di vera opposizione, l’Egitto è attraversato da fortissime tensioni sociali. Esse non trovano però un’espressione efficace a causa sia del carattere repressivo del regime sia delle responsabilità dei partiti “democratici” e di opposizione che nel 2013 appoggiarono con entusiasmo il golpe militare, spacciandolo come una seconda rivoluzione contro la deriva islamista del paese. La precarietà di Sisi e, soprattutto, il terrore del suo apparato di potere per una nuova rivolta popolare di massa sono alimentati anche dalle notizie provenienti dai vicini Sudan e Algeria, dove i due uomini forti alleati de Il Cairo – Omar al-Bashir e Abdelaziz Bouteflika – sono stati entrambi deposti dai militari sotto la spinta di manifestazioni oceaniche.

 

Il panico del regime è testimoniato tra l’altro anche dallo sforzo messo in atto per soffocare ogni resistenza organizzata alle recenti modifiche costituzionali. In tutto l’Egitto si era rapidamente diffusa una campagna contro i provvedimenti appena approvati dal parlamento che aveva raccolto più di 250 mila firme. La risposta di Sisi è stata il blocco dei cinque siti web creati dai promotori, assieme a ben 34 mila altri siti collegati in qualche modo alla protesta o comunque responsabili di diffondere posizioni contrarie ai cambiamenti alla Costituzione.

 

Oltre alla forza e al terrore, un altro fattore che garantisce a Sisi di governare l’Egitto con il pugno di ferro è il sostegno dei governi occidentali. La prova più recente di ciò si è avuta la scorsa settimana con la visita dello stesso ex generale a Washington, dove è stato accolto con tutti gli onori alla Casa Bianca. Il presidente americano Trump ha elogiato senza incertezze il macellaio della rivoluzione egiziana, insistendo, “nel caso ci fossero [stati] dubbi”, che Washington e Il Cairo “sono d’accordo su moltissime cose” e che Sisi “sta facendo un ottimo lavoro in una situazione estremamente complicata”.

 

L’appoggio dato dall’amministrazione Trump al regime egiziano è oggi esplicito, avendo l’attuale presidente messo da parte anche gli scrupoli di facciata del suo predecessore per le violazioni dei diritti umani che avevano portato a un temporaneo congelamento degli aiuti militari dopo il colpo di stato del 2013. Se i miliardi americani sono tornati a fluire senza intoppi verso Il Cairo, anche i governi europei continuano a fare affare con l’Egitto, soprattutto in ambito militare, e a rimanere in ottimi rapporti con Sisi, sia pure dietro la pretesa di sollecitare il regime al rispetto dei diritti umani.

 

A gennaio, ad esempio, il presidente francese Macron si era recato in visita da Sisi e aveva pateticamente cercato di separare l’aspetto repressivo del regime dalle questioni della sicurezza e della stabilità della regione, da garantire con le armi prodotte a Parigi. Il faccia a faccia tra i due leader aveva anche assunto una valenza simbolica particolare, dal momento che era avvenuto nel pieno delle proteste dei “gilet gialli” in Francia, frequentemente trattati dalle forze di polizia con metodi non troppo diversi da quelli solitamente usati dalla dittatura di Sisi.

 

In ultima analisi, i governi occidentali vedono con favore il consolidamento della posizione del dittatore Sisi perché quest’ultimo ha svolto un ruolo determinante nel reprimere le spinte rivoluzionarie, esplose nel 2011 con la cacciata di Hosni Mubarak, in quello che è considerato il più influente e strategicamente importante dei paese arabi. L’attitudine degli Stati Uniti e dei loro alleati nei confronti dell’Egitto di Sisi è stata riassunta qualche giorno fa da un commento alla visita dell’ex generale alla Casa Bianca pubblicato dal sito della rivista Washington Examiner. L’autore dell’articolo, pur ammettendo la natura dittatoriale del regime de Il Cairo e il “poco rispetto” di Sisi per i diritti del suo popolo, invitava a mettere da parte qualsiasi perplessità nel sostenere il regime, perché esso garantisce “tre interessi critici per gli USA”.

 

Il primo è il contrasto alla minaccia del terrorismo islamista, il secondo la promozione della stabilità regionale, ovvero il soffocamento delle rivendicazioni delle classi oppresse nei paesi arabi, e l’ultimo il contenimento dell’influenza russa. Soprattutto su quest’ultimo punto sembra concentrarsi l’attenzione di Washington, visti i legami costruiti tra Il Cairo e Mosca dopo la relativa freddezza tra Sisi e l’amministrazione Obama all’indomani del rovesciamento del presidente Mursi. Tornato in patria dopo la trasferta americana, infatti, settimana scorsa Sisi aveva annunciato l’uscita del suo paese dal progetto di Trump per la creazione della cosiddetta “NATO araba”, cioè un’alleanza sostanzialmente studiata per contrastare la presenza di Mosca in Medio Oriente e in Africa settentrionale.

 

Il rafforzamento di un’impalcatura istituzionale che garantisca il potere perpetuo del presidente Sisi deve suonare dunque come un allarme per la popolazione egiziana e non solo. Di fronte alla minaccia di una nuova esplosione sociale in un paese affetto da una crisi economica cronica, Sisi e il suo regime sono pronti a replicare la repressione seguita al golpe del 2013.

 

Le resistenze dei sostenitori del deposto presidente Mursi vennero schiacciate con la violenza. Migliaia furono i morti, tra cui almeno 700 in un solo giorno di agosto per soffocare una protesta in una piazza de Il Cairo e ancora di più gli arrestati, molti dei quali restano ancora oggi in carcere assieme a oppositori politici e giornalisti. Torture, processi-farsa, condanne a morte di massa distribuite sommariamente sono alcuni dei metodi impiegati regolarmente dal regime di Sisi, tutti messi in atto con la giustificazione di garantire la “sicurezza nazionale” nel paese nordafricano.

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