La proclamazione ufficiale del vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso settembre in Afghanistan ha innescato questa settimana una nuova grave crisi politica in un frangente forse cruciale per il futuro del paese centro-asiatico. Alla Commissione Elettorale Indipendente sono serviti quasi cinque mesi per ratificare l’ennesimo voto-farsa, il cui esito avrebbe confermato il successo del presidente in carica, Ashraf Ghani, eletto senza bisogno di ricorrere a un secondo turno di ballottaggio con il suo immediato rivale, il primo ministro o, più precisamente, “chief executive” del governo di Kabul, Abdullah Abdullah.

 

L’annuncio delle autorità elettorali afgane nella giornata di martedì ha ricordato tristemente la vicenda seguita alla chiusura delle urne nel 2014. Anche allora, il voto era stato segnato da macroscopiche irregolarità, violenze e seggi nemmeno aperti nelle aree controllate dai Talebani. Anche cinque anni fa, inoltre, Abdullah non aveva accettato i risultati che davano Ghani vincitore. Quando la situazione era sembrata precipitare, l’allora segretario di Stato americano, John Kerry, era riuscito a mandare in porto un accordo, senza dubbio favorito dall’istinto di sopravvivenza dei politici afgani coinvolti, che prevedeva Ghani alla presidenza e la creazione di un’insolita posizione ad hoc per il suo sfidante, quella appunto di “chief executive”.

Ghani avrebbe ottenuto in questa occasione il 50,64% dei consensi, contro il 39,52% andato ad Abdullah. Una serie di altri candidati si sono poi spartiti le restanti preferenze, tra cui l’ex comandante “ribelle”, Gulbuddin Hekmatyar (3,5%), reintegrato nel sistema politico post-2001 e il cui esempio il governo e le forze di occupazione USA intendono sfruttare nel processo di pacificazione in atto con i Talebani.

L’intero processo elettorale afgano è stato un esercizio scoraggiante di pseudo-democrazia imposto da Washington e dagli altri governi che continuano a mantenere una presenza militare nel paese. La grande maggioranza della popolazione non nutre ormai nessuna fiducia nelle elezioni e in un sistema politico ultra-corrotto. I numeri stessi diffusi dalla Commissione Elettorale, sui quali sono state condotte le indagini in questi mesi per arrivare ai risultati definitivi, lo confermano ampiamente.

Su una popolazione di circa 35 milioni di abitanti, gli elettori registrati erano 9,6 milioni, ma solo 2,7 milioni si sono recati alle urne. 900 mila voti sono stati però giudicati irregolari, così che la base su cui poggia la legittimità delle presidenziali afgane è rappresentata da un numero di votanti di poco superiore a 1,8 milioni. A separare Ghani da Abdullah sono stati alla fine poco più di 200 mila voti.

Come già anticipato, la vittoria assegnata a Ghani non è stata accettata da Abdullah. Il leader della cosiddetta “Alleanza del Nord”, che rappresenta le minoranze tagika, uzbeka e hazara, ha fatto sapere di voler creare un proprio governo parallelo a quello del presidente Ghani, il cui elettorato è da ricercare prevalentemente tra la maggioranza etnica pashtun. Abdullah ha fatto riferimento ai dati elettorali raccolti dal suo team, che confermerebbero il successo su Ghani. In una conferenza stampa organizzata a Kabul, Abdullah ha definito l’entourage del presidente e la Commissione Elettorale “truffatori” e “la vergogna della storia” dell’Afghanistan.

Lo scontro politico reinnescato dalla diffusione dei risultati delle presidenziali e, soprattutto, il possibile delinearsi di una contesa per il potere a Kabul sono evidentemente segnali pericolosi per le prospettive del processo diplomatico in corso tra gli Stati Uniti e i Talebani. Già prima dell’annuncio di martedì, varie fazioni dell’apparato di potere indigeno avevano espresso aperta disapprovazione nei confronti dei negoziati.

Lo stesso Abdullah si era lamentato soprattutto per le modalità con cui vengono condotte le trattative con i Talebani, ovvero per la sostanziale esclusione di alcuni partiti politici e gruppi di interesse. Da non sottovalutare è anche il fatto che praticamente tutta la classe dirigente afgana emersa grazie all’invasione americana del 2001 rischia di perdere potere e privilegi, nonché la stessa incolumità fisica, in seguito al ritorno sulla scena politica ufficiale dei Talebani.

Questi ultimi stanno trattando con i rappresentanti dell’amministrazione Trump quello che dovrebbe essere un imminente cessate il fuoco della durata di una settimana. Se in questo periodo i livelli di violenza nel paese dovessero ridursi in maniera sensibile, le due parti potrebbero finalizzare un vero e proprio accordo di pace. I punti centrali sarebbero la pianificazione del ritiro delle forze di occupazione straniere e, per quanto riguarda i Talebani, il rispetto del quadro politico creato dopo il 2001 e l’impegno a non ospitare in Afghanistan gruppi terroristici che intendono progettare attacchi contro gli interessi degli Stati Uniti.

Una volta raggiunti questi obiettivi, i Talebani si impegnano a discutere direttamente con il governo afgano per trovare una soluzione politica al lunghissimo conflitto. È chiaro tuttavia che l’assenza di un riferimento di potere forte a Kabul e l’esplodere di una nuova disputa per la carica di presidente potrebbero mettere a rischio tutto il fragilissimo processo di pace.

D’altra parte, i Talebani hanno finora sempre considerato Ghani come un “burattino” di Washington, rifiutandosi di trattare direttamente col suo governo prima di un accordo con gli USA. Un ulteriore indebolimento della posizione del vincitore ufficiale del voto del settembre scorso rappresenterebbe perciò un altro ostacolo alla diplomazia. I Talebani, in un comunicato emesso martedì, hanno già definito la vittoria di Ghani una “truffa”.

Il presidente americano Trump intende comunque trovare una via d’uscita alla guerra in Afghanistan prima delle elezioni negli USA del prossimo novembre. Questo obiettivo sembrava essere impossibile da raggiungere dopo che nel settembre del 2019 un accordo con i Talebani era saltato all’ultimo momento, ufficialmente a causa di un attentato nel quale era rimasto ucciso un soldato americano in Afghanistan.

Le trattative erano riprese nelle settimane successive grazie al lavoro dell’inviato speciale della Casa Bianca, Zalmay Khalilzad, ma le resistenze dentro allo stesso governo americano a una soluzione negoziata del conflitto, con conseguente uscita di scena del contingente militare USA, erano apparse chiare a molti. Ciò è dovuto al fatto che in gioco nel teatro afgano c’è il controllo di un’area del pianeta dove si intrecciano enormi interessi strategici, da collegare in primo luogo alla presenza crescente di paesi come Russia e Cina.

In questa prospettiva, sembra legittimo l’interrogativo sollevato da alcuni commentatori al di fuori dei circuiti della stampa ufficiale circa il tempismo della dichiarazione di martedì sull’esito delle elezioni. È apparso cioè singolare come la Commissione Elettorale afgana abbia scelto di introdurre un nuovo motivo di scontro politico, dopo quasi cinque mesi dalla chiusura delle urne, alla vigilia di un possibile storico annuncio di un accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani. Che poi a influenzare questa decisione, presa da un organo solo nominalmente “indipendente”, siano state entità indigene oppure legate alle forze di occupazione è difficile da valutare.

L’evolversi della situazione a Kabul sarà in ogni caso tutta da verificare nei prossimi giorni. Anche le minacce da parte di Abdullah Abdullah di creare un governo parallelo potrebbero più o meno facilmente rientrare. Inviati americani si sarebbero infatti già recati nella capitale afgana e, sulla scia di quanto accaduto nel 2014, sarebbero alla ricerca di una soluzione alla crisi, verosimilmente per mezzo di dollari e promesse, che consenta di limitare i danni e far muovere i prossimi passi del faticosissimo processo di pace nel paese asiatico.

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