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di Alessandro Iacuelli

Le autorità egiziane hanno aperto un'inchiesta per capire i motivi per i quali la Jolly Amaranto della compagnia "Ignazio Messina" di Genova sia finita in secca durante il suo ingresso nel porto di Alessandria d'Egitto. La nave è affondata mentre, con i motori in avaria, era trainata dai rimorchiatori dello scalo marittimo. I sub della marina militare egiziana hanno condotto un'ispezione per individuare la falla e identificarne le dimensioni. Intanto tutti e 21 membri dell'equipaggio sono stati messi in salvo da uno dei rimorchiatori che stavano effettuando le manovre.

E' solo l'ultimo dei misteri. Non solo della Jolly Amaranto, ma della compagnia genovese Ignazio Messina. Per quanto riguarda la Amaranto, la nave era arrivata in serata in rada trainata dal rimorchiatore d'altura Simoon noleggiato dalla compagnia per il recupero. E' stata poi presa in consegna dai rimorchiatori e dai piloti del porto d'Alessandria. Intorno all'una di notte ha urtato contro la roccia che delimita il canale di accesso al porto e si è incagliata, imbarcando acqua.

A causare l'incidente potrebbe essere stata una manovra errata dei rimorchiatori o dei piloti che avevano in consegna la nave. Gli accertamenti sono in corso, la Messina sta definendo l'incarico al gruppo Smit, specializzato in soccorso marino, per il recupero della nave, in collaborazione con le autorità egiziane.

La nave portacontainer, numero IMO 7616365 (è il numero d’identificazione navale) e numero MMSI 247130000 (il numero che identifica la radiofrequenza della stazione radio di bordo), lunga 145 metri, costruita in Giappone nel 1977 dalle Kawasaki Heavy Industries, si trovava davanti alle coste egiziane. Con i motori in avaria, si è trovata in balìa di una tempesta che ha provocato inclinazioni di 30-40 gradi. Situazione pericolosissima, che per una nave a pieno carico vuol dire possibilità di rovesciamento. La conseguenza è stata il lancio dell'SOS marittimo, e della richiesta di abbandonare la nave. Operazione non semplice, con un vento troppo forte e un mare forza 10, il che significa onde alte 13 metri e raffiche di vento oltre i 100 chiilometri orari.

Sul piano del disastro marittimo e su quello umano, la situazione è stata chiara fin da subito. Quel che è stato meno chiaro è tutto quello che riguarda il carico. La Jolly Amaranto aveva a bordo alcuni camion, delle auto e 313 container di cui 38 contenenti merci pericolose, e durante quegli sbandamenti, ha perso in mare una decina di container. L'armatore, attraverso il suo amministratore delegato Andrea Gais, ha assicurato che le sostane chimiche finite in mare "non possono comunque provocare un disastro ambientale".

In base a cosa? Probabilmente solo in base alle polizze di carico, il che vuol dire che è vero a patto di fidarsi ciecamente dei controlli doganali fatti al momento dell'imbarco. Di sicuro, solo degli accurati rilievi e analisi potranno dare una risposta più sensata, e magari meno emotiva. Infatti, dalle polizze di carico risulta che si tratti di vernici, resine, additivi, gomma. Purtroppo, quindi, di sostanze che sono l'opposto di quelle che "non possono provocare un disastro ambientale".

Non è tra l'altro la prima volta che la compagnia genovese si trova ad affrontare casi imbarazzanti, di cui solo l'ultimo è questa tempesta praticamente perfetta per far perdere container ad una nave, con la Jolly Amaranto che si è trovata casualmente ad essere l'unico natante a trovarsi al suo interno.

Il 10 settembre del 2002 un incendio a bordo della Jolly Rubino, vicino alle coste del Sudafrica, portò al naufragio della nave. A salvare l’equipaggio, allora, fu un elicottero che calò il suo cestello fin sulla nave in fiamme, consentendo a tutti i membri di lasciare in tempo la nave. La Rubino, senza equipaggio, andò alla deriva, a spiaggiarsi sulla costa che ospita uno dei parchi naturali più famosi del continente africano, il "Greater St Lucia Wetland Park". Anche la Rubino trasportava, tra le altre cose, prodotti chimici pericolosi.

Carol Moses, all'epoca portavoce del ministero dell’Ambiente e del Turismo sudafricano, definì la vicenda come "evento unico al mondo, dove per la prima volta dobbiamo fronteggiare un incendio, un inquinamento da olio combustibile e il rischio chimico". In quell'occasione, la compagnia Messina, con molto senso di responsabilità, aveva speso sette milioni di dollari per la rimozione del greggio e per tutta una serie di misure di prevenzione adottate dalle autorità sudafricane, comprese il continuo monitoraggio, marittimo e aereo della zona circostante il relitto, allo scopo di individuare qualsiasi nuova situazione d’inquinamento.

Se risaliamo indietro nel tempo, un’altra nave della Messina, la Motonave Rosso, ex Jolly Rosso aveva fatto tremare - e fa ancora tremare - l'Italia stessa. Il 14 dicembre 1990, esattamente 20 anni prima dell'affondamento della Amaranto, la nave si arenò sulla spiaggia di Amantea, in provincia di Cosenza. In seguito all'episodio vennero aperte diverse inchieste, per il sospetto che trasportasse rifiuti tossici, ma nella gran parte le indagini si sono chiuse con l'archiviazione. La compagnia si è difesa in tutti i modi, con un memoriale presente ancora sul loro sito internet, ma anche giudiziariamente, senza tuttavia mai riuscire a dissipare i dubbi. Il carico è andato perduto, e da alcune carte rinvenute a bordo si intuisce che il carico reale non era certamente coincidente con quello dichiarato.

Proprio per non farsi mancare niente, nell'aprile 2009 la Jolly Smeraldo è stata attaccata dai pirati al largo di Mogadiscio, per due giorni consecutivi. Certo, tutti questi danni non hanno causato molte perdite alla Messina, che è sempre stata coperta, navi e carichi, dalle assicurazioni sui sinistri marittimi. Il danno maggiore è stato un danno d’immagine, causato dal caso della Rosso.

Proprio per evitare che quanto successo all'Amaranto possa rinnovare dubbi e sospetti ed alimentare somiglianze con il caso di Amantea, c'è da fare un piccolo e banale ragionamento. Se i container coincidenti le merci pericolose non sono stati persi in mare, e se sono ancora sulla nave, allora il problema potrebbe anche non esserci, a patto che le operazioni di recupero nel porto egiziano siano rapide. In caso contrario, il disastro ambientale potrebbe essere già avvenuto.

Al momento non sappiamo ancora se quei container sono andati perduti o no, ma sarebbe certamente preferibile saperlo. In questo, sarebbe auspicabile una comunicazione molto responsabile da parte della compagnia di navigazione.