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di Liliana Adamo

Che c’è di peggio di una crisi economica? Una crisi ambientale, e non è un eufemismo. Cominciamo col dire che l’Europa si appresterà ad affrontare l’ennesima emergenza quando, molto probabilmente, non avrà neanche risolto la metà dei suoi problemi scaturiti dal debito e dalla bolla finanziaria partita nel 2008.

Che i cambiamenti climatici non siano un lapsus propagandato da ecologisti irriducibili, è ormai un dato di fatto; che i rendez-vous annuali fra plenipotenziari di mezzo mondo non riescano a mettere in pratica soluzioni invece di risultati mediocri e di facciata, è altro dato di fatto; che il degrado ambientale prodotto dalle grandi potenze industrializzate ricada soprattutto sui paesi in via di sviluppo, incombendo su popolazioni già prive di risorse, è un ulteriore dato di fatto.

Se il protocollo di Kyoto (con tanti buoni propositi mai condivisi e completamente falliti) stimava una riduzione del 6,5% delle emissioni, l’Italia, giusto per citare un esempio, le ha aumentate del 13%; peggio è toccato al resto del mondo industrializzato, che le ha innalzate fino al 37%. Scoraggiante e scontato rilevare che ci apprestiamo a un punto di non ritorno, con il picco d’inquinamento non più tollerabile per tornare a un eden originario, con fenomeni come scioglimenti dei ghiacciai, aumento volumetrico degli oceani (3,5 mm l’anno), inondazioni, estesi periodi di siccità e altri “inconvenienti” che si moltiplicheranno a ritmi sempre più accelerati.

Il nostro paese non ne sarà indenne: in Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, il 27% del suolo si sta velocemente inaridendo, mentre il 10% della Sardegna è già desertificato. Dunque, considerati i presupposti, i conti ambientali non torneranno in pareggio, almeno per prossimi quarant’anni.

Fintanto che le Nazioni Unite studiano la possibilità di rendere ufficiale lo “status di rifugiato ambientale”, senza però approdare a un’entità sul piano della concretezza, si suppone che gli sconvolgimenti del global warming porteranno milioni di persone a bussare alle porte dei paesi occidentali e l’Unhcr, agenzia Onu per i rifugiati, stima 250 milioni di eco-profughi nel 2050, costretti a fuggire (letteralmente) dalle proprie nazioni non più vivibili a causa dei problemi legati al clima.

A questo punto, cosa farà l’Occidente? Respingerà milioni di profughi ai confini? Internerà intere popolazioni cui non ha dato la possibilità di un’inversione di rotta? Dai governanti delle maggiori potenze mondiali da anni si attendono risposte, puntualmente disattese. Il caso clamoroso è quello di Durban, in Sudafrica, durante la 17ma conferenza sul clima del novembre scorso, quando, con un ricorso al “diritto legale” di ritirarsi dal Protocollo di Kyoto, il Canada è uscito ufficialmente dal trattato.

Sotto i riflettori dell’ennesimo circo mediatico globale, mentre il mondo si aspettava l’accordo del Kyoto 2 (in vigore dal 2013 al 2017), il ministro dell’ambiente canadese, Peter Kent, con un escamotage a sorpresa (in realtà molto ben congegnato), eludeva i quattordici miliardi di sanzione sulla mancata riduzione delle emissioni, accusando il governo liberale dell’ex premier Jean Chrétien, d’aver sottoscritto gli accordi di Kyoto senza predisporre i piani necessari affinché si ottenessero i risultati sperati. Insomma, Kent, esponente del nuovo governo di centro destra canadese, ha salvato capra e cavoli (suoi), vanificando l’intera conferenza.

A tirar le somme dalla debacle di Durban, i risultati non possono definirsi tranquillizzanti. Il trattato globale partirà nel 2020 e l'Ue resta in una posizione d'isolamento contro i cambiamenti climatici; Canada, Russia, Giappone non seguiranno gli orientamenti del nuovo trattato, sempre assenti Usa, Cina e India.

Si pensa a un Fondo Verde - 100 miliardi di dollari l'anno, entro il 2020 - che aiuti i Paesi più poveri a ridurre l'immissione di CO2 nell'atmosfera, però non si sa come finanziarlo; un particolare non da poco per i membri del G8 alle prese con una crisi economica senza precedenti.

Intanto, per quel 41% di popolazione mondiale che vive in prossimità delle coste, l’ingrossamento degli oceani provocherà un esodo forzato con conseguenze antropiche, sociali ed economiche gravissime, come già si sta riscontrando in vaste aree costiere del Vietnam, del Bangladesh, nelle piccole isole della Micronesia e dell’Oceano Indiano.

Lo scioglimento dei ghiacci polari che fa crescere il livello dei mari, sommerge intere province, produce una maggiore infiltrazione d’acqua salata che altera le falde acquifere e la qualità d’acqua dolce. In Bangladesh, per esempio, migliaia di persone continuano a spostarsi dalle zone rurali riversandosi in massa nei centri urbani o nella vicina India, per scarsità d’acqua e perdita progressiva del suolo agricolo. Con conseguenze generali facilmente immaginabili.

Secondo un recente studio dell’UNEP (United Nation Environmental Programme), la crescita economica e sregolata di paesi come Cina e India, con la trasformazione d’abitudini alimentari, il boom demografico e cambiamenti climatici, amplificherà lo “stress” idrico del pianeta.

Cina, India e Indonesia, si trovano fin da ora in una fase di criticità, mentre in passato non hanno mai avuto problemi in tal senso. In previsione, la situazione è destinata ad aggravarsi nei prossimi decenni, anche per quelle nazioni che possono ritenersi incolumi, grazie a una cospicua presenza di risorse d’acqua, come il bacino del Nilo, del Volga, addirittura del Colorado.

Lo IOM (International Organisation for Migration), ha stilato, invece, una “classificazione” secondo cui gli eco-profughi saranno suddivisi in tre tipologie. Environmental emergency migrants, migranti “temporanei” che possono allontanarsi solo provvisoriamente dai loro territori per bruschi e imprevedibili disastri ambientali; environmental forced migrants, migranti costretti a lasciare definitivamente i luoghi dove vivono a causa di una recrudescenza nelle condizioni ambientali, con deforestazione, pessima qualità igienico–sanitaria delle risorse idriche; environmental motivated migrants, la parte più “discussa” dell’elenco, ovverossia, migranti “motivati” che scelgono volontariamente di lasciare il paese d’origine per sfuggire a futuri problemi ambientali.

Questo “movimento”, come si è detto, è già in atto: popolazioni asiatiche, sub sahariane e del Sudamerica, lasciano spontaneamente le zone rurali dei loro padri, causa il declino della produzione agricola, la costante erosione dei terreni, le falde acquifere inquinate, la desertificazione, il depauperamento degli ecosistemi per le attività estrattive di corporation e multinazionali.

E se gli atolli maldiviani finiranno sott’acqua e lo stato di Kiribati (un’isola del Pacifico), sarà il primo a essere evacuato per effetto del global warming (113mila persone pronte all’esodo), servirà più di un’idea creativa per far fronte alla vera, drammatica crisi migratoria che si presenterà nei prossimi anni. A meno di un’inversione di tendenza che non sembra spuntare all’orizzonte.