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di Liliana Adamo

Con i suoi fiordi poco profondi, governati dalle maree e protetto da un groviglio di rizomi e piante acquatiche che sembrano voler impedire ogni passaggio umano, Mida Creek è un labirinto di corsi d'acqua dove s’incunea l’Oceano Indiano, luogo eletto dai migratori giunti da Europa e Medio Oriente. Sessantacinque specie d’uccelli, alcuni stanziali (quattrocento le varietà ornitologiche in Kenya), altri nomadi, cicogne, aironi, fenicotteri rosa, trampolieri di palude, marabù, aquile, martin pescatore, l’ibis sacro, come un’apparizione spuntano tra le bizzarrie della vegetazione, si fermano sugli isolotti creati dal riflusso, mentre, fra acqua, sabbia e fango, affiorano numerose varietà d’echinoidei (stelle marine) insieme a crostacei dalle tinte e forme impensate.

Arabuko – Sokoke, per i kenioti, vale a dire foresta pluviale sulla costa, esteso fino a trentacinque km2, Mida Creek è stato designato dall’Unesco come Bird International Zone e Riserva per la Biosfera, perché è qui che si conserva uno dei più grandi ecosistemi di mangrovie al mondo, di cui si contano ben nove tipologie, insieme a trentatré specie di alghe.

Sospeso sulla terraferma, c’è anche un ponte che attraversa un frammento di laguna. A vederlo sembra instabile, invece è pratico e sicuro. Con gli uccelli che volano da una parte all’altra, il dedalo dei canali e le mangrovie, tutto ci riporta a uno scenario di una bellezza primordiale e tuttavia, anche su questo luogo incantato, incombe la minaccia di deforestazione. Un pericolo che i volontari del WMA cercano di contenere destreggiando gli scarsi mezzi a disposizione.

Diventa uno strumento prezioso anche un semplice dissabbiatore con i reimpianti che permettono una ricrescita sana delle piante lungo i canali. Per i volontari, collocare nuovi bulbi (propagules) fra le correnti, si trasforma in una sorta di happening collettivo, un’operazione per l’ambiente certo, ma nel progetto definitivo del Watamu Marine Association c’è di più.

Per esempio, all’iniziativa del giugno scorso, “Clean up Today” (raccolta di plastica e rifiuti sull’intera costa di Watamu, con 3.204 chilogrammi di pattume rastrellato), era stato chiamato in causa il team del WAC (Watamu Against Crime). Eppure l’interesse ha investito la quasi totalità degli abitanti nel piccolo centro: gli alunni delle scuole di Seven Day Adventists e quelli del Watamu Primay School, ad affiancare il personale degli alberghi; gli allievi del Dongo Kundu Primary School a dare man forte al Watamu Turtle Watch e Arocha.

Spontaneamente, sono arrivati tutti, famiglie, giovani, donne e anziani, a rendere questo sforzo uno straordinario modello per la collettività in nome di un bene comune da tutelare. La circostanza si è poi rivelata buona per inaugurare l’uso di una macchina trita - plastica, i cui ricavi, dopo il riciclo e la vendita per usi commerciali dei frantumi prodotti, contribuirà alla sussistenza del WMA Blue, la squadra che si occupa di ripulire settimanalmente gli splendidi litorali e gli slum più poveri di Watamu, con l’aiuto della gente e le varie associazioni locali. Dopo la stagione delle piogge, tra i rami contorti e i cumuli di alghe a Turtle Bay, lunghissima spiaggia che arriva fino a Malindi, le grandi testuggini marine vanno a deporre le uova; ma in questa zona incontaminata è sorto anche un villaggio autogestito di sole donne, fortemente sostenuto dal WMA.

“Noi crediamo nel dare e vi sarà dato”, più che una richiesta d’aiuto, è l’esortazione alla reciproca conoscenza, al mutuo soccorso; chiunque è invitato a incontrare il gruppo delle Tushirikiane (attivo dal 2006) e a condividerne l’esperienza. Donne che dal niente creano proprie imprese di dimensioni contenute, shambas di frutta e verdura o produzioni d’es-paw (frutti della passione); il sistema di finanziamento si è sviluppato nel nome di “Merry-go-round”, dove convergono raccolte di fondi, piccoli prestiti a tasso zero per investimenti in start up.

I volontari del WMA insegnano come coltivare la terra e produrre, ma non solo: “Il nostro obiettivo è incoraggiare le donne a credere nelle loro possibilità, rendersi conto che possono ottenere ciò che vogliono, che l’irrealizzabile (come la rassegnazione), sia un limite che si supera con il lavoro e l’impegno. Puntiamo a un miglior tenore di vita, fornendo lezioni di base, mantenere la pulizia nelle case, prevenire le malattie, difendersi dai soprusi… E al contempo, condividendo con gli altri membri della comunità, la consapevolezza ambientale…”.

Al momento, la comproprietà delle Tushirikiane ospita diciannove orfani e alcune persone colpite dal virus HIV; i dieci ragazzi e le nove ragazze sono stati già collocati presso scuole e in diverse istituzioni. “Un piccolo gruppo fa una grande differenza. Con la premessa ambiziosa di ridurre la povertà, le donne Tushirikiane possono provvedere al proprio benessere sociale e ciò che sono in grado di fare è fonte d’ispirazione per la nostra comunità e per altri gruppi di lavoro…”. Le Tushirikiane sono donne talentuose, la cultura è uno strumento formidabile per allenarsi alla libertà e alla sopravvivenza, c’è chi si specializza in danze tradizionali, chi nell’arte culinaria o nelle pratiche esoteriche, ci sono musiciste e compositrici.

Per difendere l’ambiente, promuovere un turismo di qualità nei confronti di popolazioni formate da etnie diverse e di un patrimonio naturalistico unico, il WMA copre i costi di gestione tramite raccolte di fondi interni ed esteri con l’avvicendarsi di volontari che arrivano da ogni parte del mondo. Lo stesso comitato eletto convoca le agenzie governative a intervenire nei processi decisionali e ciò avviene in virtù del fatto che, qualche anno fa, il Kenya Wildlife Service (che sovrintende anche i grandi parchi nazionali), attivissimo segmento sul fronte ambientale che si è unito a quest’associazione relativamente giovane (nata nel 2007), ha impedito l’assalto della speculazione edilizia imponendosi su  una causa giudiziaria e invalidando mire lobbistiche sulla più bella laguna della Riserva Marina.

Prevenire il degrado e la distruzione degli habitat significa anche mettere in piedi un piano di bonifica e una campagna informativa contro metodi di pesca illegali (a strascico) che distruggono barriere coralline e praterie oceaniche di fitoplancton, utili al nutrimento dei pesci e alla loro riproduzione.

Il WMA è dunque un crogiolo d’esperienze, organizzazioni diverse sul piano pratico ma con un unico intento: riconoscere le problematiche, con la volontà a risolvere i conflitti e una scommessa fondamentale, che lavorando assieme si può garantire un futuro al piccolo borgo di pescatori swahili, tutelandone le risorse naturali, affermare una prosperità economica condivisa. Nonostante l’umiltà con cui si presenta l’agenda programmatica (e nuovi progetti), nessuno, tra membri e volontari, sottovaluta l’impegno profuso e le aspirazioni, considerando che, nel paese, va delineandosi un humus sociale e politico più complicato rispetto al passato; a sovraccaricare la situazione, anche le rappresaglie perpetrate dal gruppo terroristico somalo Shaabb, con gli attentati nelle piccole chiese evangeliche, a Nairobi come altrove e malauguratamente, questa è un’altra storia.

Qualcuno ha scritto come il Kenya sia terra dai poteri magnetici e come dal momento in cui te ne separi, sopraggiunga un fremito d’innamoramento che stringe lo stomaco, un Mal d’Africa…che si placa inevitabilmente, quando decidi di ripartire. I più scettici dubitano di quest’aura nostalgica, percezione indefinita quanto violenta; scrittori come Hemingway o Karen Blixen ne sono stati vittime e fautori.

Ma la sconfinata regione dello Tsavo East/West che annovera fra le più alte concentrazioni d’animali selvaggi di tutta l’Africa (dove l’uomo non è ammesso e non vi abita), i territori d’Amboseli e Masai Mara, il fiume sacro del Galana, Mida Creek con i suoi dedali oceanici e la giungla di mangrovie, i canyon cremisi di Marafa, le rovine arabe di Gede (dove baobab secolari, scimmie e piccole madoqua serbano l’enigma di un’antica civiltà evoluta quanto inaccessibile, improvvisamente scomparsa), tutto questo rappresenta un macrocosmo di forza e bellezza, segno primigenio di una cultura umana ancora legata alla natura e alla sua prodigiosa fenomenologia che il mondo intero dovrebbe sostenere e proteggere.

Una consapevolezza che s’infrange intorno all’arcipelago di Lamu, roccaforte araba al confine con la Somalia, dove l’Eni italiana, accodata ad altre multinazionali, compie esplorazioni sottomarine d’alcuni mesi. Il pozzo Mbawa-1, da cui è iniziata la trivellazione, è il primo offshore (in mare aperto), a essere perforato nello stato africano dal 2007. E probabilmente si palesa la fase iniziale di una campagna pluriennale, con l'industria petrolifera che punta a estendere le esplorazioni in Kenya e in Africa orientale, ma anche questo, malauguratamente, è un altro discorso…