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di Elena G. Polidori

Il possibile sbarco dei messicani e degli americani di At&t nel core business di Telecom ha reso palese quanto la politica delle privatizzazioni, avviata ormai quindici anni fa, sia da considerasi fallimentare. Un’imprenditoria italiana con il culto dell’alta finanza e del grande guadagno con il minimo investimento, ha dato la spallata definitiva all’ossatura industriale del Paese con la sola eccezione della Fiat di Marchionne, il cui cambio di strategia (investimenti forti sul prodotto anziché sugli scambi borsistici) ha consentito alla grande azienda di Torino di tornare a brillare quasi come un tempo sul fronte delle entrate e, conseguentemente, del Pil. Qualsiasi storico dell’economia, a fronte di questo fallimento della politica delle privatizzazioni, suggerirebbe al governo italiano di non proseguire oltre nella dismissione dei “gioielli di famiglia” a beneficio di finanzieri senza scrupoli che vogliono investire poco, realizzare molto e, soprattutto, tagliare i posti di lavoro per abbattere ulteriormente i costi. E invece no. Entro la fine di giugno il governo Prodi sarà chiamato a dire l’ultima parola sulla prossima privatizzazione di Fincantieri, primo costruttore mondiale di navi da crociera con un portafoglio clienti superiore a qualunque concorrente, a cominciare dalla principale “nemica” di mercato, la Aker Yard scandinava. E tutto sembra congiurare verso un ulteriore passo falso dell’attuale, miope e inadeguata, classe politica: Prodi sembra orientato verso il sì. Fincantieri è un’azienda italiana che il mondo ci invidia, che è in forte attivo, che conta su 8 cantieri nazionali e dà da mangiare a più di 20 mila persone, molte delle quali “cervelli” di primo piano. Ma a parere di Giuseppe Bono, amministratore delegato di Fincantieri, la privatizzazione dell’azienda è assolutamente necessaria. “Ho spiegato ai sindacati in stato di agitazione – ha recentemente dichiarato – che la privatizzazione non è affatto un capriccio, perché all’azienda servono risorse per continuare a stare sul mercato ed investire all’estero”. Servono soldi, insomma.

Eppure Fincantieri non è Alitalia e neppure Telecom. Negli ultimi sei anni ha chiuso il bilancio in utile con un fatturato in crescita e un’occupazione stabile di 9 mila persone dirette e 18 mila esterne. E il 2006 è stato addirittura un anno boom con utile netto a 58,7 milioni di euro,con un aumento del 21% rispetto allo scorso anno e un valore della produzione in aumento (2.341,8 milioni, +9,6%, nonché distribuzione di un dividendo di 10,1 milioni,pari al 3% del capitale sociale. L'anno appena trascorso ha portato nuovi ordini per 4,1 miliardi, che sommati al valore totale delle commesse ancora da consegnare, portano il portafoglio a 10,2 miliardi, in aumento del 31% rispetto ai 7,8 miliardi del 2005.

Gli investimenti in Ricerca e Sviluppo, 43,7 milioni, sono in linea con quelli del precedente biennio. Per quanto riguarda l'inizio del 2007, sono gia' stati raggiunti accordi con l'americana Oceania Cruises e con l'italiana Silversea per navi di alta gamma. Per le navi militari e' confermato un ordine per la fornitura a un cantiere turco del progetto, di componenti e di know-how tecnologico per la costruzione di quattro pattugliatori, destinati alla Guardia Costiera della Turchia. Con il gruppo tedesco Hartmann sono stati stipulati contratti per sei navi polivalenti da supporto offshore piu' l'opzione per altre due unita'. Il portafoglio ordini oggi supera gli 11 miliardi di euro.

Un ben di dio, non c’è che dire. Che mostra ancora di più quanto sia illogica, dal punto di vista industriale, la privatizzazione visto che le risorse per nuovi investimenti, numeri alla mano, sarebbero certamente reperibili all’interno dell’azienda. E, per altro, non si vedono all’orizzonte folle di imprenditori che sgomitano per ottenere la gestione del colosso navale.

Cosa spinge, allora, il governo verso questo passo? Il solito motivo: fare cassa. Il piano industriale di Bono prevede 800 milioni di investimenti per migliorare i cantieri esistenti e acquisirne altri all’estero: si parla con insistenza delle Bahamas, con la scusa che lì si potrebbe operare al meglio la manutenzione delle navi da crociera Fincantieri di stanza nei carabi. Ma non è null’altro che un passo verso la delocalizzazione di asset strategici dell’azienda.

Di più: si parla anche di costruire alcuni scafi in Ucraina, dove il costo del lavoro rispetto all’Italia è vicino allo zero, con il risultato immediato di orientare l’azienda verso minori investimenti che, alla lunga distanza, le farebbero correre il rischio concreto di vedersi rosicchiare quote consistenti di mercato sia dai concorrenti scandinavi che dagli agguerriti orientali.

Per evitare questo possibile scempio, i sindacati sono scesi sul piede di guerra e il presidente della Camera, Bertinotti, ha dichiarato la propria netta contrarietà all’operazione che già nella breve distanza, porterebbe ad un sostanzioso abbattimento dell’occupazione, a cominciare da Porto Marghera fino a Catellammare di Stabia, dove sono stimati 2500 posti di lavoro in meno, escluso l’indotto. L’affare Fincantieri, dopo la sconfitta Telecom, rappresenta dunque una straordinaria occasione di battaglia politica per chiunque crede che sia venuto il momento di fermare la finanza, salvare il sistema industriale e rilanciare lo sviluppo, una sorta di spartiacque tra la vecchia – e fallimentare – politica liberista e una nuova politica industriale, casomai su esempio della Fiat di Marchionne.

Soprattutto, il governo è chiamato a prendersi le sue responsabilità; qui non c’è un’azienda da salvare, né ci sono all’orizzonte minacce di “invasioni” da parte di stranieri alla conquista di qualcosa di più robusto del “tesoretto” accumulato con le ultime entrate di cassa. Qui c’è un’azienda che sta bene, macina commesse e posti di lavoro e che è in pieno sviluppo; aggiustare il tiro su alcune strategie economiche non significa per forza passare per Piazza Affari, casomai dividendo l’azienda in tre parti per renderla, come si dice ipocritamente in gergo, più snella sul fronte del mercato.

Stavolta il confine tra la salvaguardia di un bene pubblico importante e il riformismo più spavaldo passa anche tra le navi da crociera: e nessuno vuole perdere ancora un altro gioiello di famiglia per qualche vampata liberista del Bersani di turno.