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Per quanti confidano che la “prima fase” dell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina firmato mercoledì a Washington possa mettere fine al conflitto tra le prime due potenze economiche del pianeta, i prossimi mesi riserveranno con ogni probabilità sgradite sorprese. Nessuna delle questioni  fondamentali della rivalità esplosa negli ultimi anni è stata infatti affrontata, né tantomeno risolta, dal documento ratificato alla Casa Bianca con la stretta di mano tra il presidente americano Trump e il vice-premier cinese, Liu He.

 

Quanto accaduto a Washington può essere più propriamente definito come una tregua momentanea, che serve più che altro a permettere a Trump di propagandare una “vittoria” su Pechino nell’anno della sua possibile rielezione. La “prima fase”, su cui i due paesi hanno trovato una certa convergenza, ha a che fare perciò con aspetti relativamente meno complicati, come quelli dei dazi sulle rispettive importazioni. Anche questi argomenti sono stati tuttavia oggetto di estenuanti trattative, col rischio di rottura sfiorato più volte. È facile dunque immaginare quali ostacoli si presenteranno quando verranno affrontati i temi più delicati e scottanti in una “seconda fase” ancora tutta da definire.

La firma dell’accordo è stata comunque organizzata in grande stile dall’amministrazione Trump, proprio per enfatizzare il rilievo di un evento che lascia aperti in realtà parecchi interrogativi. Il presidente era inoltre accerchiato da svariati “CEO” di colossi del settore privato americano, a testimonianza, se mai fosse stato necessario, di quali siano stati i riferimenti della Casa Bianca nel mandare in porto il precario accordo commerciale con la Cina.

Concretamente, i nodi principali sui quali i due paesi hanno trovato un punto d’incontro riguardano l’aumento delle esportazioni di prodotti americani verso il mercato cinese e la protezione della proprietà intellettuale delle aziende USA operanti in Cina, assieme a questioni finanziarie e valutarie. Washington e Pechino avrebbero anche raggiunto un’intesa su un meccanismo per la risoluzione di eventuali dispute.

Alcuni dettagli, in ogni caso, sono rimasti segreti. La Cina, nondimeno, si sarebbe impegnata ad assorbire importazioni extra dagli Stati Uniti per 200 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Gli acquisti riguardano svariati settori e quello agricolo, tra i più penalizzati dai dazi di Trump e dalle ritorsioni cinesi, beneficerebbe di una fetta pari a circa 40 miliardi. Che questi numeri siano realistici è però quanto meno dubbio.

Molti osservatori hanno fatto notare come i produttori americani abbiano in questi mesi dirottato le proprie esportazioni verso altri mercati a causa della guerra commerciale scatenata da Trump, così che potrebbero non essere in grado di soddisfare un’eventuale impennata della richiesta di Pechino. Parallelamente, anche la Cina si è rivolta ad altri paesi per sostituire le importazioni americane e non è detto che possa ritornare facilmente ad acquistare ai livelli precedenti dagli agricoltori negli USA.

Il clima di sfiducia che permane tra le due potenze è poi confermato dal fatto che i due terzi delle importazioni americane dalla Cina, pari a 370 miliardi di dollari, resteranno gravati da tariffe doganali anche dopo la firma dell’accordo. Allo stesso modo, più della metà dell’export americano diretto in Cina rimarrà soggetto a dazi.

Sulla relativa distensione tra Washington e Pechino ha senza dubbio influito l’avvicinarsi della stagione elettorale in America, così come il desiderio di stabilità nelle relazioni bilaterali manifestato dai mercati finanziari e dai settori industriali con importanti interessi in Cina. La leadership di quest’ultimo paese ha a sua volta cercato di allentare le tensioni sul fronte commerciale in primo luogo per cercare di arrestare il degrado di un rapporto bilaterale che su altri fronti – dal Mar Cinese Meridionale a Taiwan, dai diritti umani a Hong Kong – non fa intravedere nessuna inversione di rotta.

Quanto Pechino si aspetti veramente dall’accordo sottoscritto mercoledì è difficile dire. Di certo, al governo cinese non può sfuggire che tutte le questioni fondamentali sollevate in questi mesi dagli Stati Uniti rimangono irrisolte. Alla base dell’offensiva di Washington c’è in sostanza l’angoscia per la minaccia rappresentata dalla Cina alla posizione di predominio degli USA in ambito tecnologico, industriale e militare. Per impedire questa evoluzione che la classe dirigente cinese continua a perseguire senza sosta, gli Stati Uniti puntano nientemeno che a stravolgere i piani di crescita economica di Pechino, così da rendere questo paese poco più di una colonia subalterna del capitalismo a stelle e strisce.

Questa ambizione americana è in larga misura utopica, ma gli USA non intendono per questo abbandonarla e, anzi, in prospettiva futura non è da escludere il possibile ricorso all’opzione militare per ristabilire equilibri favorevoli a Washington. Le questioni decisive che l’amministrazione Trump solleverà durante la “fase due” dei negoziati con Pechino incontreranno, è facile prevederlo, la ferma opposizione dei leader cinesi, dal momento che in gioco c’è precisamente il futuro del loro paese, nonché la legittimazione del sistema di potere odierno.

Al di là delle ostentazioni della forza e dei successi degli Stati Uniti nel corso della cerimonia di mercoledì, gli ambienti di potere americani non dormono sonni tranquilli e hanno già spostato l’attenzione sui progetti di sviluppo cinesi, come ad esempio quelli che entreranno nel quattordicesimo piano quinquennale del 2021-2025.

La testata on-line Asia Times ha analizzato nei giorni scorsi alcuni degli obiettivi di Pechino che intendono fare della Cina la principale potenza tecnologica del pianeta nei prossimi anni, inevitabilmente a discapito degli USA. Ad esempio, l’ammodernamento dell’industria cinese ha ricevuto un nuovo impulso lo scorso novembre grazie all’iniezione di 21 miliardi di dollari nell’ambito di un bilancio dedicato alla “ricerca e sviluppo” che ammonta complessivamente a ben 110 miliardi. Questi numeri, tuttavia, “sono destinati a impallidire di fronte alle cifre che saranno previste dai piani di spesa del prossimo piano quinquennale”.

Su un altro fronte decisivo per la nuova rivoluzione tecnologica imminente, quello del 5G, la battaglia americana contro i principali protagonisti cinesi, primo fra tutti Huawei, sembra essere già quasi persa o, quanto meno, resta ancora lontanissima dal successo. Sempre Asia Times spiega infatti che quasi la metà dei 65 accordi commerciali per la creazione delle reti 5G finora sottoscritti da Huawei è con clienti europei, nonostante la campagna di pressioni condotta da Washington nei confronti degli alleati del vecchio continente. Ancora, tre quarti delle 400 mila “stazioni base” dedicate al 5G già vendute dal colosso cinese sono avvenute dopo la decisione della Casa Bianca di mettere sulla lista nera Huawei.

Un ulteriore aspetto su cui intende concentrarsi l’attenzione americana è l’appoggio statale cinese alle compagnie che competono sui mercati internazionali, ritenuto un vantaggio illegittimo che distorce le logiche del libero mercato. Un recente studio di Fitch Solution ha però chiarito che i rimedi per gli USA non saranno di facile implementazione, poiché “il governo di Pechino, assieme alle banche pubbliche, continuerà a garantire prestiti… alle compagnie cinesi che entrano in molti nuovi mercati offrendo prezzi [più bassi perché] sovvenzionati” avendo quindi “un netto vantaggio sui concorrenti”.

Come ha spiegato l’accademico cinese Li Zheng, così, “nel 2020 le relazioni in ambito scientifico e tecnologico raggiungeranno un altro punto critico”, tanto da far passare in secondo piano le questioni puramente commerciali. “Gli Stati Uniti vedono” infatti “la crescita tecnologica della Cina come una minaccia” e cercheranno perciò di “creare ostacoli al flusso della tecnologia” stessa, ma anche “delle informazioni, del capitale, dei mercati e dei talenti tra i due paesi per mezzo di leggi e decreti” che, in ogni, caso, difficilmente potranno fermare l’evoluzione e il rimescolamento degli equilibri internazionali in atto ormai da tempo.