di Alessandro Iacuelli

Dopo gli esperimenti missilistici dello scorso 4 luglio, nei giorni scorsi il regime nordcoreano ha annunciato, tramite la propria agenzia ufficiale, che a breve terrà un test nucleare. L’annuncio crea allarme sia nella regione asiatica sia in occidente. E’ la prima volta, da quando a febbraio del 2005 affermò di avere messo a punto la bomba, che la Corea del Nord fa sapere di preparare un test nucleare, tra l’altro senza specificarne la data. Durissima la nota d’agenzia con la quale viene dato l'annuncio: “La gravissima minaccia di una guerra atomica rappresentata dagli Stati Uniti costringe la Repubblica popolare a condurre un test, quale passo indispensabile per mettere a punto un deterrente nucleare”. Altrettanto dura la risposta americana, affidata a Sean McCormack, portavoce del dipartimento di Stato americano che, in una dichiarazione rilasciata al Cairo, dove si trova in visita con la segretaria di Stato Condoleezza Rice, afferma: “Un test della Corea del Nord minerebbe la nostra fiducia negli impegni presi da essa nei negoziati a sei e rappresenterebbe una minaccia inaccettabile alla pace e alla stabilità in Asia e nel mondo”, chiudendo con ciò ogni possibile via di mediazione.

di Bianca Cerri

La leggenda vuole che Mark Foley sognasse di fare l’uomo politico già dalla più tenera infanzia, quando correva in bicicletta sul piccolo spiazzo antistante il ristorante vegetariano gestito dai suoi genitori. Nel 1977 inizia a militare nel partito democratico, come è tradizione di ogni vero gentiluomo di Boston, ma quando i repubblicani gli offrono una candidatura come vice sindaco fa immediatamente le valige e passa alla concorrenza. Nel 1983 Foley incontra Ronald Reagan, che intuisce in lui le doti del vero politico, capace al tempo stesso di compiacere i finanziatori facendo credere agli elettori di avere a cuore solo gli interessi del paese. Il presidente non si sbaglia: otto anni dopo, Foley viene eletto al Congresso e diventa uno degli esponenti repubblicani più popolari. Nel 2003, subito dopo aver dichiarato alla stampa di non avere alcuna intenzione di candidarsi al Senato, si candida per diventare senatore, esattamente come aveva previsto Reagan, che di mistificazioni politiche ne sapeva qualcosa.

di Agnese Licata

I risultati del ballottaggio che il prossimo 29 ottobre porterà alle urne milioni di congolesi rischiano di confermare, ancora una volta, la lezione già appresa dall’Afghanistan come dal più recente Iraq: non basta mettere in piedi delle elezioni burocraticamente democratiche per garantire la concreta convivenza pacifica delle varie anime di un paese. A maggior ragione se si parla di un vasto e composito stato africano che ha vissuto, fin dalla sua indipendenza dal Belgio nel 1960, una serie infinita di conflitti con gli stati confinanti. A dare concretezza a questa preoccupazione ci sono i risultati elettorali del primo turno, svolto il 30 luglio, oltre ai disordini e agli scontri tra le milizie private dei due candidati, dopo la loro ufficializzazione.

di Bianca Cerri

Sembra incredibile ma fra tanti giornalisti, “esperti” di malesseri infantili e preti mediatici che nei giorni scorsi hanno parlato della Bielorussia come della patria degli orchi, a nessuno è venuto in mente di indagare sui motivi che hanno costretto le repubbliche ex-sovietiche a rendere più severe le leggi sulle adozioni internazionali. Brutta storia. Mani affondate nella melassa di cui ormai gli italiani non possono più fare a meno e neppure una parola sul business delle adozioni di orfani dei paesi dell’Est che negli Stati Uniti realizza un fatturato annuo di un miliardo e mezzo di dollari. Basta pagare tra trenta e quarantamila dollari a una delle centinaia di agenzie specializzate e gli aspiranti genitori frustrati dalla mancata nascita di un figlio naturale, potranno portarsi a casa un bambino proveniente da uno qualsiasi degli ex-paesi sovietici.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Nel clima di scetticismo che domina in Russia nessuno crede più alle promesse. Ma la speranza, come si sa, è l’ultima a morire. E così questo progetto del quale si parla ora sembra proprio destinato a sconvolgere - nei prossimi decenni - la vita dell’Eurasia e, in particolare, di una regione come la Siberia (10 milioni di chilometri quadrati). Tutto avviene in seguito ad un progetto di quattro paesi - Russia, Kasachstan, Mongolia e Cina - che decidono di unirsi per trasformare le caratteristiche di un intero territorio. Farne un immenso centro turistico internazionale, collegato all’occidente con nuove arterie stradali, nuove linee aeree e ferroviarie. E, soprattutto, dotato di moderne strutture turistiche capaci di rispondere alle esigenze di un pubblico internazionale. Progetto del secolo? Per ora tutto è sulla carta, ma già il mondo del business mondiale è allertato. Si muovono aziende che operano nel campo delle costruzioni stradali, fabbriche che producono materiale ferroviario, società di telecomunicazioni... E soprattutto grandi società turistiche che puntano ad assicurarsi l’esclusiva per centri di riposo, alberghi, motel, aree di caccia e stazioni invernali.


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