Il “piano di pace” lanciato lunedì a Washington dai due partner nel genocidio palestinese, Trump e Netanyahu, non rappresenta in nessun modo una proposta di accordo serio per mettere fine alle atrocità nella striscia e costruire una prospettiva di futuro dignitoso per i suoi abitanti. È perciò possibile che Hamas finirà per respingere l’offerta della Casa Bianca, anche perché comporterebbe la resa totale e la completa sottomissione palestinese allo stato occupante. Oltretutto, anche l’eventuale accettazione del piano non garantirebbe lo stop di violenza e distruzione, dal momento che il regime sionista avrebbe totale libertà di azione per riprendere le operazioni militari e completare la “pulizia” di Gaza.

 

È significativo che la proposta in 20 punti del presidente USA non sia il frutto di negoziati veri e propri, ma il risultato di un’intesa con Netanyahu, il responsabile del genocidio che si intenderebbe fermare. Molte delle condizioni sono volutamente vaghe così da renderne complicata l’implementazione o per lasciare la massima discrezione possibile a Israele. In linea di massima, come ha correttamente spiegato il segretario generale della Jihad Islamica, Ziad al-Nakhala, il piano Trump “riflette totalmente le posizioni israeliane”. Attraverso di esso, di conseguenza, Netanyahu intende imporre con la diplomazia, o per meglio dire con pressioni enormi sul movimento di liberazione palestinese, quello che non è stato in grado di ottenere con le armi.

L’accordo, in caso dovesse essere applicato, potrebbe facilmente saltare in tre giorni o poco più. Una delle condizioni previste è il rilascio da parte di Hamas dei prigionieri israeliani ancora nelle proprie mani – vivi o morti –entro 72 ore dall’entrata in vigore del cessate il fuoco. Appena ciò dovesse accadere, non c’è letteralmente nulla che impedirebbe alle forze sioniste di riprendere l’aggressione militare nella striscia. Un qualsiasi pretesto potrebbe far ripartire il genocidio, ma anche senza una ragione, per quanto inventata, Israele non troverebbe nessun ostacolo, come conferma la violazione unilaterale del cessate il fuoco dello scorso marzo alla vigilia dell’inizio dei negoziati per passare alla seconda fase dell’accordo che il regime di Netanyahu aveva sottoscritto con Hamas.

Il documento partorito dal vertice a Washington tra Trump e Netanyahu, basato peraltro su una serie di proposte già avanzate senza successo nei mesi scorsi, ha a ben vedere lo scopo preciso di provocare il rifiuto di Hamas. In altre parole, i due leader/criminali di guerra stilano una serie di condizioni, sostanzialmente sotto dettatura del premier israeliano, che garantiscono gli interessi di Tel Aviv, le confezionano sotto forma di proposta di pace e, una volta inevitabilmente bocciata da Hamas, usano questa manovra per denunciare i “terroristi” che non vogliono la pace, così che lo stato ebraico ha il via libera a proseguire il genocidio con meno pressioni della comunità internazionale. Infatti, Trump ha tenuto a precisare che, se Hamas non accetterà il suo piano, gli Stati Uniti consentiranno a Israele di finire il “lavoro” nella striscia.

Che il piano di Trump sia il risultato delle richieste del regime di Netanyahu lo ha rivelato martedì un articolo del Wall Street Journal, che spiega appunto come il premier abbia “spinto” per apportare cambiamenti al testo, così da allinearlo meglio agli interessi del suo regime. Netanyahu ha senza dubbio sfruttato la sua influenza sull’amministrazione repubblicana per ottenere il massimo, ma si è dovuto anche adoperare per evitare il veto della componente più estrema (fascista) del suo gabinetto. Ad esempio, il riferimento a un futuro stato palestinese, per quanto illusorio, sarebbe stato espunto del tutto dal testo, sostituito da un vago accenno alle aspirazioni di auto-determinazione dei palestinesi.

Tant’è vero che, mentre i governi occidentali e i regimi arabi hanno evidenziato come il piano getti le basi per un futuro stato palestinese, lunedì Netanyahu ha assicurato alla stampa che questa eventualità “non è assolutamente inclusa nell’accordo”, essendo il suo governo “fermamente contrario” alla creazione di uno stato palestinese. Questa presa di posizione è d’altra parte perfettamente in linea con il discorso ultra-provocatorio tenuto dallo stesso premier/criminale di guerra venerdì scorso all’ONU. In esso, Netanyahu aveva chiuso nuovamente alla soluzione dei due stati, definendola, nonostante stia lui stesso portando a termine un genocidio preparato a tavolino, una “concessione che [favorendo la creazione di uno stato palestinese] faciliterebbe ulteriori attacchi contro Israele”.

A conferma di tutto ciò, durante la conferenza stampa con Trump di lunedì, Netanyahu ha evitato qualsiasi accenno a un futuro stato palestinese, mentre ha significativamente esaltato la proposta americana perché consente a Israele di “raggiungere tutti i suoi obiettivi” della guerra nella striscia: “distruggere Hamas, garantire [la sicurezza de]i confini e fare in modo che Gaza non rappresenti una minaccia”. Lasciando molti aspetti nel vago, è evidente che la Casa Bianca intende assicurare a Tel Aviv il controllo completo su Gaza, così come in Cisgiordania.

Un altro punto cruciale della proposta Trump-Netanyahu è il congelamento delle linee del fronte e il ritiro “graduale” delle forze di occupazione dalla striscia. Quest’ultima condizione, che Hamas chiedeva ma in maniera incondizionata e al momento dell’entrata in vigore dell’eventuale tregua, è una trappola deliberata per il movimento di liberazione palestinese. Hamas dovrebbe infatti consegnare subito tutto gli “ostaggi”, perdendo immediatamente l’unico strumento di pressione su Israele, mentre le forze armate sioniste sono ancora dispiegate a Gaza. Come già accennato in precedenza, è facile immaginare quello che potrebbe accadere a Hamas una volta che i prigionieri israeliani verranno rilasciati.

Inoltre, almeno una parte delle forze di occupazione resterebbe a Gaza durante la “smilitarizzazione” della striscia, in teoria da accompagnarsi alla cessione del controllo del territorio a una temporanea Forza Internazionale di Stabilizzazione, i cui contorni restano però al momento oscuri. Probabilmente sarebbero alcuni paesi arabi a fornire soldati per questo contingente, anche se è evidente che di fatto potrebbe operare solo coordinandosi con Israele, se non sottomettendosi del tutto alle forze di occupazione. Gli uomini di Hamas dovranno invece da parte loro consegnare tutte le armi. Chi vorrà, rinunciando alla lotta armata, potrà restare nella striscia, così come non verranno posti ostacoli ai militanti che intendono lasciare la loro terra. Netanyahu ha addirittura aperto a una possibile amnistia per i membri di Hamas una volta che il movimento si sarà sciolto. Inutile dire che simili rassicurazioni da parte di un regime che utilizza l’assassinio come un normale strumento “politico” non rappresentano garanzie certe.

La questione dell’organo di governo immaginato dalla Casa Bianca nella striscia del post-genocidio è un altro esercizio di cinismo. Inizialmente dovrebbe essere creato un organo “tecnico” formato da personalità palestinesi, presumibilmente autorevoli e “apolitiche”, ovvero pronte a collaborare con l’occupazione, ed “esperti” internazionali. A supervisionare il tutto ci sarebbe un orwelliano “Consiglio di Pace” formato nientemeno che dallo stesso Trump, l’ex premier britannico e criminale di guerra a piede libero, Tony Blair, e forse altre personalità per ora non identificate.

Questa struttura provvisoria consegnerà le redini di governo in un futuro immaginario all’Autorità Palestinese (AP), oggi resa irrilevante dall’aggressione israeliana di Gaza e avversata dalla stragrande maggioranza dei palestinesi. La AP, tuttavia, potrà governare ciò che resterà dei territori palestinesi solo dopo avere completato una serie di “riforme” interne richieste dalle potenze straniere. Riforme non per recuperare consensi tra i palestinesi, perduti per la natura collaborazionista dell’Autorità, ma per diventare ancora di più uno strumento degli interessi di Occidente, regimi arabi e stato ebraico. Resta in ogni caso il fatto che il regime di Netanyahu ha respinto più volte dopo il 7 ottobre 2023 la possibilità di assegnare all’AP il controllo di Gaza, fondamentalmente perché implicherebbe legittimare un organo che, nonostante il discredito e la natura inoffensiva per Tel Aviv, prefigura almeno in teoria un futuro stato palestinese.

Nel complesso, la tragica farsa di Trump e Netanyahu rappresenta una risposta alla crescente opposizione popolare in tutto il mondo nei confronti del massacro sionista dei palestinesi, nonché un tentativo di contrastare la recente ondata di riconoscimenti dello stato palestinese, anche se sostanzialmente inutili a livello concreto. Il fatto che i regimi arabi sunniti e i governi europei si siano precipitati ad esprimere il loro appoggio alla proposta americana conferma che si è in presenza di un’iniziativa coordinata sostanzialmente per attuare un complotto contro i palestinesi e le loro legittime aspirazioni, chiamando il tutto “accordo di pace”.

Vista la situazione più che drammatica sul campo, Hamas starebbe comunque studiando “in buona fede” il documento e ha promesso una risposta formale in tempi brevi. È probabile che ci siano all’interno del movimento di liberazione palestinese forze che rifiutano quella che appare come una capitolazione totale e altre che preferirebbero accettare per mettere fine a una situazione apocalittica per la popolazione di Gaza. Nella prima ipotesi, la fiamma della liberazione della Palestina resterebbe accesa, sia pure a un prezzo altissimo, la cui responsabilità è però tutta del regime sionista e dei suoi complici, mente nella seconda, violenza e sofferenze indicibili potrebbero almeno parzialmente o temporaneamente cessare. Ma il prezzo sarebbe in questo caso la rinuncia all’autodeterminazione palestinese e la resa forse definitiva al regime di occupazione.

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