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di Vincenzo Maddaloni

Se come usa dire “il buongiorno si vede dal mattino” - di là del risultato del referendum che il prossimo  18 settembre si  terrà in Scozia per decidere l’indipendenza dal Regno Unito - tutto lascia prevedere che John Henry, il barista del “Beadnell Towers” continuerà a negare l’esistenza del “The Famous Grouse”, benché sia il whisky più venduto in Scozia. Lo si intuisce da come rotea gli occhi quando gli se ne chiede un bicchiere. Probabilmente per un sussulto di orgoglio nazionale.

Succede che il “Beadnell Towers” sia un albergo sulla costa del  Northumberland, famosa per le distese di dune, di scogliere, e per le torri fortificate lungo il litorale che rammentano le guerre tra gli inglesi e scozzesi che si sono alternate nel corso dei secoli in questa zona di confine. Infatti risale al 1455 l’ordinanza del Parlamento inglese con la quale si esige che sulla sommità delle torri ci siano accesi dei fuochi con tutto l’occorrente per i segnali di fumo, “giorno e notte e sempre a portata di mano”.

Le torri rimasero operative per almeno trecento anni, tanto dura infatti la storia dell’indipendentismo scozzese. Nel 1707, il regno di Scozia entrò a far parte del Regno di Gran Bretagna insieme all’Inghilterra, e i due parlamenti vennero fusi insieme. Una convivenza però che non fu tranquilla né pacifica, e che si concluse nel 1746, a Culloden, dove i sostenitori dell’antica casata reale scozzese, quella degli Stuart, combatterono e persero l’ultima battaglia.

Guglielmo di Cumberland, che la vinse e passò alla Storia con l’appellativo “il macellaio”, ordinò lo sterminio di tutti gli scozzesi feriti mentre i prigionieri d’alto lignaggio furono giustiziati. Ma per gli scozzesi il peggio doveva ancora arrivare: nei mesi successivi la Corona prese provvedimenti draconiani per distruggere il loro retaggio, arrivando a vietare perfino il kilt e la cornamusa e perseguitando la lingua gaelica fino a quel momento predominante nelle Highlands e lungo la costa occidentale del Paese.

Tuttavia l’indipendenza è rimasto un tema ricorrente nel discorso politico della Scozia. Si tenga a mente che lo Scottish National Party, il Partito Nazionale Scozzese, (SNP), il partito promotore del referendum, fu fondato nel 1934 e per larga parte della storia recente scozzese ha esteso il suo consenso elettorale sottraendolo alle emanazioni locali dei due maggiori partiti britannici, chiedendo più autonomia e poteri per la regione. Nel 1979 l’SNP, riuscì a organizzare un referendum per la formazione di un parlamento scozzese, ma non raggiunse il quorum (avrebbe dovuto votare per il sì almeno il 40 per cento dell’elettorato, ma l’affluenza fu piuttosto bassa).

Fu un secondo referendum, tenutosi nel 1997, a portare alla formazione di un parlamento locale scozzese. E’  quello il periodo nel quale Tony Blair diventa primo ministro e si affretta a mantenere ciò che aveva promesso agli scozzesi che lo avevano aiutato a battere i Tories. L’11 settembre si tiene il referendum sul trasferimento dei poteri a un governo nazionale scozzese, l’ormai famosa “devolution”, e vincono i "Sì" con i tre quarti dei voti. Ma la coalizione tra laburisti e liberaldemocratici che governa dal 1999 al 2007 poté ben poco: l’indipendenza “riconquistata” si concretizzò in qualche parata di cornamuse in più. Le speranze di un nuovo futuro, soprattutto economico, svanirono.

Negli ultimi anni, e dopo la vittoria elettorale dell’SNP alle politiche del 2011, si è posta con maggiore insistenza la questione di un’indipendenza completa dal Regno Unito: nell’ottobre del 2012 il primo ministro inglese David Cameron e quello scozzese Alex Salmond - che è anche l’attuale capo dell’SNP, che complessivamente si trova su posizioni più vicine a quelle dei Labour che dei Conservatori - si accordarono per un referendum sull’indipendenza da tenere nell’autunno del 2014, come infatti sta avvenendo.

Ad ogni modo un’identità scozzese ben distinta da quella inglese è riuscita a sopravvivere eccome, e se ne sentono gli effetti anche nelle piccole cose, soprattutto da queste parti nelle Lowlands e della costa orientale, nelle quali vivono almeno i quattro quinti degli scozzesi.

Probabilmente è questa diversità che infastidisce persone come il barista del “Beadnell Towers” John Henry, inglese doc che, in quanto tale, ha bene in mente che  gli scozzesi non rinunciarono mai a sfidare la supremazia londinese. A cominciare dalla morte della regina Anna, quando supportarono massicciamente la causa della dinastia Stuart soppiantata da quella degli Hannover che invece era gradita agli inglesi.

Raccontano i libri di Storia che siccome i partigiani degli Stuart furono detti “giacobiti”, dal nome di Giacomo II Stuart che nel 1688 era stato deposto da Guglielmo d’Orange, la parola “giacobita” diventò sinonimo di scozzese. Nel 1746, come detto, essi andarono tuttavia incontro a una terribile sconfitta sulla radura di Culloden. Tuttavia la lotta identitaria scozzese non si esaurì con la brutale repressione dei giacobiti, ma è riemersa progressivamente con passaggi controversi e tormentati fino ai nostri giorni.

Naturalmente i britannici la vivono con terrore. Sentimento non del tutto immotivato, perché se prevalessero i "Sì" scomparirebbe tra l’altro anche la bandiera del Regno Unito, nata  dalla sovrapposizione delle bandiere dell’Inghilterra e della Scozia. La perdita della Union Jack, qualora la Scozia votasse a favore dell’indipendenza, non avrebbe solo un grande impatto emotivo scrive l’Independent.

E spiega che secondo diversi economisti ed esperti di marketing anche l’economia e le esportazioni ne risentirebbero: «Il dinamismo del rosso, del bianco e del blu sono riconosciuti immediatamente e ovunque. La Union Jack è anche un simbolo di solidità e fiducia nel mondo degli affari: aiuta le società britanniche a commerciare all’estero e trovare porte aperte».

Poi, benché il referendum non rimetta in discussione l’Unione delle Corone - dal 1603, infatti, con Giacomo I, Inghilterra e Scozia condividevano la monarchia pur mantenendo parlamenti sovrani - quella dell’indipendenza della Scozia rimane una questione piuttosto complicata che potrebbe avere importanti conseguenze politiche. La questione monetaria è una di queste ed è stata usata da entrambe le parti come argomento a favore o sfavore delle rispettive posizioni.

Alex Salmond, primo ministro scozzese, socialdemocratico e sostenitore dell’indipendenza, ha promesso che se vinceranno i "Sì" manterrà la sterlina e negozierà con la Banca d’Inghilterra e il Regno Unito un’unione monetaria, cosa che rassicurerebbe i mercati.

Ma egli ha anche ribadito che se la Scozia indipendente resterà senza la sterlina si rifiuterà anche di farsi carico di parte del debito pubblico della Gran Bretagna, che è in totale di circa mille e duecento miliardi di sterline.

Alistair Darling, (nato a Londra da famiglia scozzese) ex ministro laburista anti indipendentista, ha ribattuto che non è in gioco il patriottismo ma «il destino delle generazioni future: se prendiamo questa decisione, non ci sarà poi modo di tornare indietro. Non ci sarà nessuna seconda possibilità. Per noi la scelta è molto, molto chiara. Voglio usare la forza del Regno Unito per rendere più forte la Scozia», aggiungendo che una Scozia indipendente andrebbe incontro a grandi difficoltà economiche.

Ma siccome nonostante le invocazioni di Darling gli elettori favorevoli all'indipendenza della Scozia la percentuale dei “Sì” è in costante aumento, meglio si capisce la stizza del barista del “Beadnell Towers”, il quale con un solo vortice di pupille mi aveva seppellito un whisky scozzese famoso assieme al popolo che ne fa un vessillo di orgoglio nazionale.

Beninteso, sull’esito dei sondaggi e sulle reazioni che essi provocano non se ne stupiscono all’ Old Course di St Andrews, il più antico campo da golf del mondo che annovera tra i suoi giocatori Giacomo IV re di Scozia (anno 1504), e Tom Morris che con Allan Robertson (XIX secolo) furono i primi professionisti riconosciuti di questo sport.

Sicché non attendetevi delle sparate alla Borghezio, dagli scozzesi seduti al bar davanti a un  tappeto erboso di un verde incredibile, mentre sorseggiano “The Famous  Grouse”, “Il Famoso Urogallo”. Anzi, essi usano toni pacatissimi nell’evidenziarmi l’inaffidabilità dei sondaggi.

Infatti, quelli pubblicati giovedì 11 settembre, condotti dall’istituto YouGov per il quotidiano britannico Times, mostrano che il 52 per cento degli elettori e delle elettrici scozzesi intervistati negli ultimi tre giorni vuole rimanere con il Regno Unito.

Nel sondaggio precedente, condotto dallo stesso istituto - che tanto amareggiò il barista del “Beadnell Towers” - erano in vantaggio di un punto gli indipendentisti. Insomma, la situazione - essi sottolineano - è molto incerta, benché secondo gli ultimi dati, la percentuale dei “Sì” abbia guadagnato quasi dieci punti rispetto all’inizio di agosto.

Si tenga a mente che in Scozia gli unionisti sono ancor adesso, in parte non trascurabile, espressione di quelle classi abbienti per secoli favorite da Londra, poiché emanazione “britannizante” del lealismo orangista da opporre al “tradimento” giacobita. In breve, un confronto tra il sì e il no che fa leva sulla rivendicazione sociale che col tempo si è andata stemperando. E siccome gli elementi culturali, linguistici e non da ultimo religiosi non sono mai stati la molla decisiva dell’indipendentismo scozzese, meglio si comprende il valore che hanno i sondaggi quando si basano su delle reazioni prevalentemente umorali, che poco giovano agli scenari difficilissimi da districare. Per esempio quello delle Forze armate.

Infatti, secondo i dati diffusi dal Ministero della Difesa citati dal Guardian, 14.510 persone lavorano in Scozia per l’Esercito: 3.910 sono civili e 10.600 sono militari. Poi da un recente sondaggio si evince che il 46 per cento degli scozzesi si oppone al possesso di armi nucleari, contro il 37 per cento che invece lo sostiene. Sicché a seguito di questi dati, nel caso la Scozia diventasse indipendente è stato dichiarato dal governo che il paese abbandonerà il programma entro il 2020. Anche perché il Partito Nazionale Scozzese (SNP) e i suoi alleati, sono da sempre contrari alle avventure militari di Londra e al suo costante sostegno alle politiche americane, come negli  ultimi interventi in Medio Oriente.

Insomma, “Siete d’accordo che la Scozia diventi una nazione indipendente?”. E’ questa la domanda a cui si dovrà rispondere dopodomani. Il risultato? Molto dipenderà dall’umore della giornata delle elettrici e degli elettori.