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Categoria: Esteri
di Maurizio Musolino

Bashar al Assad "Siamo nel mirino", è questa la consapevolezza che attraversa l'intera società siriana. Una frase che suona come un ritornello nei mercati, come nelle università, nelle moschee come negli affollati uffici ministeriali. Tutti sanno che dopo la guerra e l'invasione all'Iraq è proprio la Siria, insieme al vicino Iran, ad essere indicata dall'amministrazione Bush come lo stato responsabile e colluso con il terrorismo internazionale, in pochi però riescono a spiegarsene il motivo.
La Siria è oggi l'unico Stato, nell'intera regione, ad aver conservato una fortissima impronta laica. Molto più che in Egitto, dove in maniera strisciante (ma non troppo dopo le ultime elezioni e l'affermazione dei Fratelli mussulmani) l'Islam politico è un soggetto influente nella vita politica, qui c'è una sorta di rivendicazione del pluralismo religioso. Una necessità per un Paese da decenni governato dalla dinastia Al Assad, famiglia di religione alawita, una piccola corrente del frastagliato universo islamico. Fu proprio il padre dell'attuale presidente, Hafez Al Assad, ad essere un precursore della lotta all'integralismo religioso quando negli anni Ottanta intraprese una vera e propria guerra contro l'islamismo radicale che culminò con il bombardamento di Hama, cittadina a metà strada fra Aleppo e Damasco. Da allora molte cose sono cambiate, ma certamente l'agibilità politica per i partiti religiosi è in Siria assai limitata. Del resto una situazione analoga si registrava anche in Iraq prima dell'invasione anglo-americana. Il regime autoritario di Saddam Hussein solo negli ultimi mesi della propria esistenza aveva aperto alle forze islamiche, precedentemente sempre perseguitate in nome di un laicismo ba'hatista che aveva caratterizzato oltre un ventennio di vita politica. Da qui la prima domanda che viene d'obbligo a chiunque voglia interrogarsi seriamente su cosa avviene in questa martoriata parte del mondo: come può Bush accusare il presidente Bashar di complicità con Al Qaida? E soprattutto perché chi ha dichiarato guerra all'islamismo radicale oggi vuole colpire uno fra i pochi Stati laici della regione?

La vicenda siriana rafforza la sensazione che l'obiettivo della Casa Bianca non sia mai stato né Bin Laden, négli altri "mostri" di volta in volta creati. Il vero obiettivo è la disgregazione degli Stati nazionali e soprattutto dell'idea stessa di nazionalismo panarabo che aveva caratterizzato l'intero processo di decolonizzazione negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. Forte dell'antico detto romano "dividi et impera", i teorici neocons hanno deciso che l'unico modo per assicurarsi il controllo di una area del mondo strategicamente importantissima, sia in chiave di risorse energetiche che geograficamente, è l'abbattimento degli attuali Stati nazionali. Questo è accaduto in Afghanistan, sta accadendo in Iraq, si vorrebbe far accadere in Siria e Iran. Un ritorno ad un mondo tribale che faticosamente sembrava essere oramai alle spalle dei Paesi del Medioriente. Poco importa se questo può portare ad una instabilità foriera di terrore e sangue.

Del resto su questa linea Bush ha trovato un facile alleato in Israele volenteroso di ridimensionare tutti i Paesi vicini per superare la psicosi di nanismo generata dall'essere uno Stato piccolissimo di appena sei milioni di abitanti e con un territorio equivalente a quello di una media regione italiana. Per Israele la disgregazione di Siria, Iraq e Iran è una vera e propria assicurazione per la vita in vista di un futuro più o meno lontano nel quale lo Stato ebraico perdesse la funzione di baluardo degli interessi americani nell'area.
A questo proposito molti commentatori leggono l'evoluzione della crisi irachena, con la volontà Usa di dialogare con settori sunniti della resistenza, strettamente collegata alla crisi siriana. Damasco potrebbe diventare moneta di scambio per compensare la perdita di egemonia sunnita in Iraq. Una Siria di stretta osservanza sunnita diventerebbe una controparte succosa in cambio dell'accettazione di una divisione territoriale dell'Iraq che assegnerebbe alla popolazione sunnita una fetta di Paese limitata e di scarso interesse economico ed energetico. Per realizzare questo progetto, cosa di meglio che attaccare Damasco proprio partendo dalla nazione simbolo delle divisioni etnico religiose? Da qui le pressione che da circa due anni - le date coincidono con la consapevolezza di Bush che la campagna irachena non sarebbe stata né facile, né breve - si sta esercitando verso il Libano.

Tutto è iniziato circa diciotto mesi fa prendendo spunto dalla riconferma dopo due mandati del Presidente della repubblica Emil Lahoud. Lahoud, libanese maronita, ex capo di Stato maggiore dell'esercito, aveva avuto il merito di traghettare il Paese verso quello che sembrava un definitivo superamento della guerra civile. Aveva ricreato un esercito veramente nazionale, con il contributo di tutte le componenti del Paese dei Cedri, aveva pacificato il Libano riuscendo a tessere stretti rapporti con il vicino siriano e con le forze della resistenza guidate da Hezbollah; non trascurando però, anche grazie all'ex presidente del consiglio Rafik Hariri, assassinato nella scorsa primavera a Beirut, i contatti con i ricchi Paesi del Golfo e con i sauditi che avevano fatto la parte del leone nella ghiotta partita della ricostruzione. La sua rielezione era stata letta come un favore alla Siria se non proprio il risultato di pressione arrivate direttamente da Damasco.

Un vero affronto verso l'indipendenza del Paese, per alcune forze politiche che spalleggiate e finanziate dalla Francia e dagli Usa hanno dato vita ad un cartello delle opposizioni che avevano come unico punto del loro programma l'uscita dei militari di Damasco dal Paese. Militari, è bene ricordarlo, in Libano per volontà della Comunità internazionale al fine di garantire la pace raggiunta dopo gli accordi di Taef. Così si arriva alla formulazione di una risoluzione delle nazioni Unite; la 1559, che chiedeva essenzialmente due cose: il ritiro totale dei soldati siriani dal Libano e la smilitarizzazione di tutte le milizie libanesi. Due richieste a prima vista più che legittime, ma che nascondono intenzioni di natura ben diversa da quella sbandierata. Al già citato progetto di indebolire e colpire il governo di Bashar si aggiunge infatti anche la volontà di rendere inoffensivi gli Hezbollah, legati sia a Damasco che a Teheran, ancora impegnati sul fronte sud del Paese nella liberazione di una parte di territorio ancora occupata da Israele e di umiliare i palestinesi che in oltre 400mila unità vivono in situazioni disperate nei campi del Libano. Un regalo all'alleato Israele. Ma sul terreno libanese non si consuma solo la rottura con la Siria. Beirut diventa anche luogo di ricomposizione fra Bush e Chirac dopo la rottura consumata con la guerra in Iraq. Gli Usa accettano di attribuire alla Francia di nuovo un ruolo nella regione in cambio di un sostanziale appoggio alle sue politiche espansive nell'area.

E in questo contesto che avviene l'omicidio di Rafik Hariri, l'uomo politico più impegnato, fino ad allora, nella campagna antisiriana insieme al leader druso Jumblatt. Troppo facile quindi individuare in Damasco e nei suoi servizi le responsabilità di questo assassinio, anche in presenza di più di un elemento che poteva far ricondurre l'attentato contro Rafik a regolamenti di conti di natura prevalentemente finanziaria. Conti che sicuramente passavano anche per la capitale siriana ma che nulla avevano a che fare con una possibile strategia del governo Bashar per colpire chi si opponeva alla sua presenza in Libano. Dopo la morte di Hariri molti veli cadono e soprattutto si registra un esplodere dell'attivismo maronita. Protagonisti delle piazze diventavano i rampolli di famiglie storiche e famigerate quali Gemayel, Frangié, Aoun e Gea Gea. Ad orchestrare il tutto l'arcivescovo maronita di Beirut Sfeir. Ma da noi questi nomi per i più dicono poco e sui rotocalchi si esalta la piazza pubblicando i volti di giovani che si riproponevano di emulare la rivoluzione arancione Ucraina. La situazione degenera in pochi giorni, il Paese dei cedri sembrava essere ritornato sull'orla di una guerra civile che si scopre non sopita. Hezbollah porta in piazza oltre un milione di persone per ribattere a queste pressioni. Ma alla fine stretta in una morsa violenta e sull'onda di una forte richiesta popolare Damasco sarà costretta a capitolare e nel giro di poche settimane ritira completamente il suo contingente militare dal Libano. In quei giorni, paradossalmente, Bush affermava che senza quel ritiro, sotto occupazione, non si sarebbero mai potute svolgere elezioni veramente libere.

Ma il ritiro a questo punto non basta più. Si scopre il vero obiettivo dell'intero "affaire": la Siria. Inizia così proprio in concomitanza con l'uscita dal Libano una escalation contro Damasco fatta di blocchi di conti correnti, di sanzioni economiche, di provocazioni militari al confine iracheno e di accuse, appunto, di sostenere il terrorismo internazionale. Culmine di questa strategia è l'istituzione di una commissione di inchiesta internazionale chiamata ad indagare sull'omicidio di Rafik Hariri. A guidare questa commissione viene chiamato un tedesco, Mehlis. Lo stesso che negli anni Novanta era stato nominato alla testa di una analoga commissione in Libia.
Da quella esperienza era uscito malissimo, infatti gran parte del castello accusatorio si era dimostrato infondato e frutto solo di un accurato lavoro di disinformazione messo in atto dai servizi segreti occidentali. L'uomo giusto, quindi. Mehlis non perde il suo vizio e costruisce l'impianto accusatorio su testimoni inaffidabili, alcuni dei quali ritrattano poche settimane dopo la sentenza.

Ma a caratterizzare le indagini c'è una precisa volontà di considerare il governo siriano sul banco degli imputati. Continue le richieste di interrogatori a cittadini siriani, accompagnate però dal rifiuto di procedere a queste udienze a Damasco. Viene rifiutata anche una proposta di mediazione che individua nell'Egitto un possibile Paese terzo dove poter svolgere gli interrogatori. Nulla ferma la volontà di individuare nella Siria il nuovo "Satana". Tanto meno le riforme che si stanno portando avanti che prevedono una sostanziale liberalizzazione del mercato e l'introduzione di una forma di multipartitismo. Riforme che sono seguite ad un congresso del partito ba'hat che non è sbagliato definire storico dal quale è uscito un gruppo dirigente rinnovato al 75%.
Partono così le accuse al Presidente Bashar di non collaborazione e le relative minacce di pesanti ripercussioni. Nessuno però si preoccupa di spiegare per quale motivo la risoluzione delle Nazioni Unite anche questa volta sembra avere carattere ultimativo per uno Stato arabo mentre a decine sono puntualmente disattese da Israele senza che nulla accada. Così come nessuno si preoccupa di rassicurare la popolazione siriana convinta di "essere nel mirino" e che ad una caduta dell'attuale governo possa corrispondere solo una crescita di influenza da parte di quell'Islam politico che, a parole, l'occidente dice di voler combattere.