Un durissimo rapporto pubblicato questa settimana da Amnesty International ha confermato le responsabilità del governo americano nella distruzione della città siriana di Raqqa e nell’uccisione di centinaia di civili nel corso della “liberazione” di quella che era considerata come la capitale dello Stato Islamico (ISIS).

 

L’indagine è passata sostanzialmente sotto silenzio sulla stampa USA, ma la stessa organizzazione per i diritti civili ha rilevato fatti di una gravità tale da giustificare l’apertura di un procedimento per crimini di guerra, così come il ricorso, da parte del Pentagono, a una forza di fuoco con pochi precedenti nel secondo dopoguerra.

 

 

La descrizione dell’orrore riscontrato a Raqqa da Amnesty corrisponde all’immagine della città raccontata da altri osservatori nei mesi scorsi. Nel mese di aprile, ad esempio, reporter dell’agenzia di stampa Associated Press avevano dato un quadro sconvolgente della situazione. La città era di fatto in rovina e tra le macerie si respirava ancora l’odore dei corpi in decomposizione. Interviste con i residenti avevano rivelato come fossero stati recuperati quasi 500 cadaveri, ma, a sei mesi dalla “liberazione”, molti altri dovevano essere ancora individuati.

 

Simili resoconti si scontrano clamorosamente con la versione ufficiale tuttora propagandata dal dipartimento della Difesa americano. Per Washington, il numero dei civili uccisi dalle operazioni della coalizione anti-ISIS tra giugno e ottobre 2017 è fissato ridicolmente a 32, mentre indagini sarebbero tuttora in corso su un numero imprecisato di altri casi.

 

Il rapporto di Amnesty è il risultato di analisi sul campo effettuate nel febbraio scorso e, in particolare, in 42 luoghi colpiti dall’artiglieria americana. Al contrario delle indagini-farsa solitamente condotte dal governo USA, sono stati inoltre intervistati più di 110 sopravvissuti alle operazioni militari e che hanno perso uno o più famigliari sotto le bombe.

 

In maniera provocatoria, il rapporto è stato intitolato “Guerra di annientamento”, in riferimento alla descrizione dell’offensiva di Raqqa data dal segretario alla Difesa USA, James Mattis. Ben presto sarebbe risultato chiaro come, nella realtà dei fatti, questa definizione fosse più adatta a descrivere l’impatto dell’operazione sui civili che non sull’ISIS.

 

Il numero delle vittime civili non può essere comunque stabilito con precisione, ma senza dubbio è nell’ordine delle centinaia. Per Amnesty un bilancio così pesante deriva da una strategia, messa in atto dalla coalizione anti-ISIS, che non può che avere conseguenze letali sulla popolazione civile, basata cioè su bombardamenti aerei e sul fuoco dell’artiglieria. L’organizzazione Airwars, che monitora il numero di vittime civili delle guerre contro il fondamentalismo islamista, ha da parte sua stimato in circa 1.400 i morti a Raqqa sotto il fuoco degli Stati Uniti e dei loro alleati.

 

Le forze di terra che hanno combattuto contro gli uomini del “califfato” erano composte soprattutto da membri della milizia curda YPG, inquadrata nelle cosiddette Forze Democratiche Siriane, ovvero la fazione dei “ribelli” anti-Assad appoggiati da Washington. L’impatto di queste ultime non fu evidentemente decisivo nella lunga battaglia di Raqqa, visto che gli stessi alti ufficiali americani impegnati nelle operazioni avevano in seguito ammesso il lancio di ben 30 mila pezzi di artiglieria sulla città della Siria in soli cinque mesi, cioè un numero ineguagliato dopo la Guerra in Vietnam.

 

Per Donatella Rovera di Amnesty International, quello che la sua organizzazione ha osservato a Raqqa è “un livello di distruzione nemmeno paragonabile a quanto visto [da Amnesty] in decenni trascorsi a descrivere le conseguenze dei conflitti”. Gli edifici della città sono stati distrutti in una percentuale che, a seconda delle stime, va dal 65% all’80% e la popolazione sopravvissuta e rimasta sul posto ha dovuto fare i conti anche con la mancanza di cibo, acqua, medicinali ed elettricità, nonché con gli ordigni esplosivi lasciati dall’ISIS.

 

Di fronte a tutto questo, il numero uno delle operazioni a Raqqa, il generale americano Stephen Townsend, fu in grado di affermare che l’offensiva della coalizione anti-ISIS era stata “la campagna aerea più precisa della storia”.

 

In conclusione, afferma Amnesty, l’impatto dell’assalto a Raqqa sui civili è stato niente meno che “devastante”. Il ricorso a incursioni “sproporzionate” e “indiscriminate” rappresenta così “una violazione del diritto internazionale sui diritti umani” e “un potenziale crimine di guerra”.

 

Che il paese considerato come il principale esportatore di democrazia nel mondo sia accusato apertamente di avere commesso crimini degni della Germania nazista da un’organizzazione ritenuta rispettabile anche dalla galassia di commentatori e media “mainstream” non ha comunque suscitato particolari reazioni tra questi ultimi.

 

A differenza di questo disinteresse, un vero e proprio polverone era stato sollevato, tra l’altro, nel corso dell’assedio delle forze governative siriane di Aleppo o di Ghouta orientale, alla periferia di Damasco. Peggio ancora, la stampa ufficiale in Occidente lo scorso aprile aveva accettato per vere le accuse contro Assad di avere condotto l’ennesimo fantomatico attacco con armi chimiche contro i “ribelli”, appoggiando di fatto la successiva aggressione militare contro postazioni militari siriane ordinata dalla Casa Bianca.

 

I crimini americani nella presunta guerra all’ISIS in Medio Oriente sono in ogni caso ben più gravi di quelli documentati a Raqqa. Prima della “liberazione” di questa città, la coalizione guidata dagli USA, in collaborazione con milizie irachene, si era concentrata, nella prima parte del 2017, sulla ben più popolosa di Mosul. Anche nella città dell’Iraq il bilancio delle vittime è controverso, ma il numero totale è stato di gran lunga superiore a quello di Raqqa e ancora più gravi le violazioni dei diritti umani sotto forma di esecuzioni sommarie e di attacchi indiscriminati contro i civili.

 

La già ricordata Airwars aveva contato poco meno di seimila morti tra i civili a causa dei bombardamenti americani, senza includere però la prima fase dell’assedio sul finire del 2016. Nell’estate dell’anno scorso, invece, il giornale britannico The Independent aveva citato fonti dell’intelligence irachena che sostenevano come nei nove mesi di guerra a Mosul avessero perso la vita addirittura 40 mila uomini, donne e bambini estranei ai combattimenti.

 

Per quanto riguarda ancora Raqqa, Amnesty solleva infine un interrogativo già circolato nei mesi scorsi e che rende ancora più gravi le responsabilità americane. Nel pieno dell’assedio, la coalizione aveva continuato la campagna di bombardamenti aerei anche durante i negoziati con l’ISIS per un cessate il fuoco che avrebbe garantito l’evacuazione in sicurezza dei jihadisti dalla città.

 

In altri termini, gli Stati Uniti hanno messo a ferro e fuoco Raqqa e massacrato centinaia di civili con la giustificazione di annientare la presenza dell’ISIS, mentre, in realtà, si erano accordati per consentire a questi ultimi di lasciare indisturbati la città siriana.

 

L’intesa con l’ISIS, a sua volta, conferma un altro aspetto del carattere criminale e a dir poco ambiguo delle attività di Washington in Siria. Una parte dei guerriglieri fondamentalisti furono lasciati liberi di andarsene da Raqqa perché sarebbero stati utili agli USA e ai loro alleati in un'altra provincia della Siria, quella di Deir ez-Zor a est, dove si stava preparando un’operazione delle forze del regime di Assad per riprenderne il controllo dagli stessi uomini del “califfato”.

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