Il fallimento del secondo vertice tra il presidente americano Trump e il leader nordcoreano, Kim Jong-un, è da attribuire al mantenimento da parte del governo USA di posizioni inflessibili, e difficilmente conciliabili con un negoziato onesto, sulle sanzioni in vigore contro Pyongyang e su eventuali concessioni a favore del regime. La linea dura scelta dalla Casa Bianca mette ora in forte dubbio il futuro del processo diplomatico nella penisola di Corea e rischia di aprire una serie di scenari che potrebbero facilmente riportare le relazioni tra i due paesi allo stato critico registrato durante tutto l’anno 2017.

 

 

A giudicare dai toni amichevoli e ottimisti che erano prevalsi tra le due delegazioni prima e durante le fasi iniziali dell’incontro di Hanoi, in Vietnam, Trump e Kim sembravano ben avviati verso l’annuncio di un qualche accordo, sia pure più formale che di sostanza. La stampa americana aveva insistito soprattutto sull’ostentazione da parte di Kim della sua disponibilità a “denuclearizzare” la Corea del Nord, tanto che questa intenzione era stata apertamente manifestata anche in risposta a domande di giornalisti occidentali, cosa mai avvenuta in precedenza.

 

Prima della notizia della relativa rottura tra i due leader, erano circolate anche notizie in merito a iniziative seriamente sul tavolo, come l’apertura di un “ufficio di collegamento” americano in Nordcorea, in seguito sostanzialmente confermate dallo stesso Trump. Col passare delle ore nella giornata di giovedì, invece, le discussioni hanno incontrato uno scoglio insormontabile, così che il pranzo previsto e la cerimonia fissata per la firma di un possibile accordo sono stati bruscamente cancellati.

 

Il presidente americano ha dato la propria versione degli eventi in una conferenza stampa organizzata in anticipo e poco prima di lasciare il Vietnam. La trattativa si sarebbe cioè arenata dopo che gli Stati Uniti hanno respinto la richiesta nordcoreana di sospendere tutte le sanzioni in essere in cambio dello smantellamento del sito nucleare di Yongbyon. Washington, invece, ha insistito sulla rinuncia a tutto il programma nucleare della Corea del Nord prima di procedere con la cancellazione delle misure punitive che gravano su questo paese. “Fondamentalmente”, ha riassunto Trump, Kim “voleva la sospensione delle sanzioni nella loro totalità”, ma la sua amministrazione “non è nella posizione di accettare”.

 

In definitiva, l’impasse che ha arrestato i progressi diplomatici ha a che fare con la sequenzialità dell’abolizione delle sanzioni USA e delle concessioni da parte di Pyongyang. Nonostante la pretesa flessibilità a cui aveva fatto riferimento Trump ancora giovedì, in fase di negoziato il presidente USA ha alla fine ricalcato la linea ufficiale dell’apparato della sicurezza nazionale americano, ribadendo la necessità di mantenere tutte le sanzioni in vigore fino a quando il regime di Kim non si impegnerà e non dimostrerà di accettare una denuclearizzazione “completa, verificabile e irreversibile”.

 

La fermezza di Trump può dipendere almeno in parte dai riflessi degli eventi delle ultime ore in patria. Mentre andava in scena il vertice con Kim, infatti, al Congresso di Washington si teneva un’audizione del suo ex legale, Michael Cohen, il quale ha tracciato un profilo tutt’altro che lusinghiero del suo ex datore di lavoro. Le pressioni sulla Casa Bianca a proposito di questa vicenda potrebbero avere convinto perciò Trump a evitare ulteriori polemiche e a non discostarsi perciò dalle posizioni dell’establishment sulla necessità di ottenere il massimo dalla Corea del Nord senza fare in sostanza concessioni significative.

 

Le responsabilità dello stallo diplomatico a cui USA e Corea del Nord sono tornate giovedì sono comunque da attribuire in larga misura a Washington. Le premesse del fallimento erano state inoltre gettate da tempo. Il blog MoonOfAlabama ha ricordato come i propositi sottoscritti da Kim e Trump a Singapore nel giugno dell’anno scorso siano stati puntualmente disattesi da parte americana. Se Pyongyang ha congelato i test missilistici e nucleari, ha smantellato un impianto militare, ha consentito il ritorno in America dei resti dei prigionieri di guerra, da parte degli Stati Uniti non ci sono state di fatto iniziative reciproche, a parte il congelamento delle esercitazioni militari con la Corea del Sud.

 

La reciprocità del processo di distensione non è dunque mai stata innescata, malgrado le richieste in questo senso di Kim fossero state molto chiare, oltre che legittime. La questione chiave del negoziato era e rimane d’altra parte per la Corea del Nord la garanzia della sopravvivenza del regime, così che, alla luce dei precedenti americani ad esempio in Iraq e in Libia, risulta inconcepibile privarsi dell’unica garanzia nelle proprie mani di fronte alla persistente e concreta minaccia rappresentata dagli Stati Uniti.

 

La sospensione anche parziale delle sanzioni non è però arrivata, così come il via libera ai progetti di partnership economica tra Pyongyang e Seoul o l’accettazione a sottoscrivere un vero e proprio trattato di pace che metta fine ufficialmente al conflitto del 1950-53. Sempre il blog MoonOfAlabama ha evidenziato il carattere illusorio della strategia del Dipartimento di Stato e del Consiglio per la Sicurezza Nazionale americani, i quali hanno scommesso sul fatto di potere presentarsi al vertice di Hanoi “per ottenere altre concessioni dalla Corea del Nord prima di sospendere le sanzioni”.

 

Un atteggiamento simile è ancora più insensato se si tiene presente che il summit di questa settimana era stato ovviamente preceduto da negoziati tra i rappresentanti dei due governi e le posizioni nordcoreane erano dunque ben note. Lo stesso Kim aveva anche tenuto un discorso pubblico a inizio anno, nel quale aveva promesso iniziative importanti e “definitive” solo se gli USA avessero messo in atto “azioni corrispondenti”.

 

A Washington, invece, i mesi sono trascorsi senza una decisione favorevole allo sblocco della trattativa, con gli ambienti “neo-con” dentro e fuori l’amministrazione Trump che hanno mantenuto il controllo di un processo che, a ben vedere, non ha mai avuto come obiettivo quello di creare uno scenario di pace nella penisola di Corea, bensì di sottrarre Pyongyang alla sfera di influenza cinese. La speranza che Kim potesse sottomettersi agli Stati Uniti in cambio della promessa di un rilancio economico del suo paese era destinata inevitabilmente a fallire, se non altro per la più che giustificata diffidenza del regime nei confronti del governo americano.

 

Giovedì, il ministro degli Esteri nordcoreano, Ri Yong-ho, ha rivelato alla stampa alcuni retroscena significativi del vertice. Il diplomatico ha spiegato che la delegazione del suo paese aveva avanzato una “proposta realistica”, chiedendo la sospensione almeno parziale delle sanzioni in cambio della chiusura di fatto dell’impianto nucleare di Yongbyon. I coreani si sono detti anche pronti a dare garanzia scritta dello stop ai test missilistici e nucleari, ma gli USA hanno risposto chiedendo “un’altra concessione”. Il ministro Ri non ha precisato ulteriormente, ma i giornali sudcoreani hanno ipotizzato che si potrebbe trattare di una misura relativa al presunto arsenale di ami chimiche e biologiche della Corea del Nord, mai sollevato in precedenza durante i negoziati, e che a insistere su questo punto sarebbe stato il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, il super-falco John Bolton.

 

Le prospettive di pace restano ora estremamente incerte. Da parte americana si è provato a evitare il pessimismo, sostenendo che il lavoro della diplomazia proseguirà e che lo stato delle relazioni bilaterali, in particolare il feeling tra Kim e Trump, rimane tutto sommato buono. A otto mesi dalla rottura del ghiaccio, tuttavia, la distanza tra le due parti continua ad apparire difficilmente colmabile e, in assenza di un improbabile cambio di rotta drastico a Washington, appare del tutto legittimo immaginare un ritorno ai toni bellicosi e al rischio di guerra che hanno caratterizzato quasi tutta la storia dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord.

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