Le elezioni anticipate di martedì in Israele hanno restituito risultati estremamente incerti che lasciano aperta la clamorosa ipotesi di un epilogo dell’era Netanyahu. Il primo ministro e il suo partito Likud devono fare i conti con la minaccia di essere scalzati dal ruolo di prima forza politica dalla coalizione “Blu e Bianca”, nominalmente di centro-sinistra. Se i risultati finali dovessero confermare questa realtà, Netanyahu potrebbe non solo veder finire la sua permanenza alla guida del governo, ma anche ritrovarsi ad affrontare la giustizia israeliana senza alcuna speranza di immunità.

 

La coalizione guidata dall’ex capo delle forze armate, Benny Gantz, dovrebbe essersi assicurata 33 seggi, contro i 32 del Likud. In quanto leader del primo partito, Gantz punta a ottenere dal presidente, Reuven Rivlin, l’incarico per cercare di formare un nuovo gabinetto. Né la coalizione “Blue e Bianca” né il partito di Netanyahu sono però in grado di mettere assieme i 61 seggi necessari a conquistare una maggioranza in parlamento (“Knesset”) contando solo sui propri potenziali o sicuri alleati.

La prima, aggiungendo i seggi di un Partito Laburista (6) sempre più in disgrazia, dell’Unione Democratica (5) e quelli tutt’altro che garantiti della Lista Comune araba (12), resterebbe infatti lontana dalla maggioranza assoluta. Stesso discorso per il Likud, a cui si devono sommare i seggi dei partiti ultraortodossi Shas (9) e UTJ (8), nonché di Yemina (7), l’alleanza dei movimenti di estrema destra degli ex ministri di Netanyahu, Ayelet Shaked e Naftali Bennett. Qualche voto per la destra è andato anche disperso, visto che il piccolo partito Otzma Yehudit non è stato in grado di superare la soglia di sbarramento del 3,25%.

L’unico in grado di sbloccare il probabile stallo sembra essere l’ex ministro della Difesa, Avigdor Lieberman. Il suo partito ultranazionalista laico Yisrael Beiteinu, con i suoi 8 seggi, potrebbe diventare l’ago della bilancia. Lieberman aveva però già messo condizioni non facili da accettare per i suoi possibili partner di governo ancora prima delle elezioni. Dopo il voto di martedì ha ribadito la sua richiesta di un governo di “unità nazionale” che includa la coalizione “Blu e Bianca” e il Likud, emarginando i partiti ultraortodossi.

Il suo rifiuto a entrare in un governo Netanyahu dopo le elezioni dello scorso aprile era dovuto proprio a un’agenda opposta a quella della destra religiosa, tradizionale stampella del Likud, la cui difesa di “privilegi”economici e dell’esenzione dal servizio militare per gli studiosi dei testi sacri ebraici si scontra con gli interessi della base elettorale di Lieberman, in larga misura composta da immigrati dall’ex Unione Sovietica.

I rapporti tra Lieberman e Netanyahu, di cui il primo era stato anche capo di gabinetto di quest’ultimo negli anni Novanta, sono decisamente deteriorati nonostante il noto pragmatismo del primo ministro. Netanyahu è consapevole comunque che un governo di questo genere diluirebbe non poco la sua influenza. Anche se il premier dovesse accettare la proposta di Lieberman, inoltre, Benny Gantz ha già fatto sapere di essere disposto a formare un esecutivo con il Likud solo se Netanyahu si farà da parte per via dei suoi guai legali.

Al di là dello scontro politico in atto, le differenze tra l’uno o l’altro governo che dovrebbe nascere saranno tutt’altro che sostanziali. In particolare, il carattere ultra-reazionario e criminale in relazione alla questione palestinese sarà sostanzialmente immutato, come confermano le critiche da destra rivolte nei confronti di Netanyahu da parte di molti leader dell’opposizione negli ultimi anni durante gli scontri con Hamas a Gaza o quando le tensioni con l’Iran si sono avvicinate al punto di rottura.

Benny Gantz, da parte sua, ha un passato da comandante militare impegnato nella repressione dei palestinesi, tanto da essersi vantato di avere ucciso quasi 1.400 “terroristi” palestinesi e, durante la guerra del 2014, da minacciare che Gaza sarebbe “tornata all’età della pietra”. In concomitanza con il voto, inoltre, in Olanda si è aperto un procedimento legale per stabilire se l’ex generale israeliano possa essere processato per crimini di guerra.

Che un governo di “unità nazionale” sia comunque l’ipotesi più probabile lo si è intuito nelle ore immediatamente successive al voto. Se Gantz otterrà un mandato esplorativo, ha già fatto sapere che intende “parlare con tutte le forze politiche” per cercare di costruire una coalizione di governo. L’ostacolo Netanyahu potrebbe essere superato facendo leva sui malumori che circolano da tempo all’interno del Likud a causa di una leadership screditata, della gestione personalistica del potere e del potenziale destabilizzante a livello regionale delle iniziative del primo ministro.

Netanyahu non ha comunque nessuna intenzione di farsi da parte senza combattere. La sua sopravvivenza politica coincide d’altra parte con la sua stessa libertà personale. L’obiettivo primario è per lui infatti di rimanere alla guida di una maggioranza parlamentare in grado di approvare una legge sull’immunità che lo risparmi da un processo per corruzione che potrebbe essere imminente.

Per mobilitare l’elettorato di estrema destra, la strategia di Netanyahu in campagna elettorale era stata quella di alimentare il clima di emergenza e di assedio dello stato di Israele, ordinando tra l’altro attacchi mirati contro le forze alleate dell’Iran in Libano, Siria e Iraq. “Bibi” ha poi alzato nuovamente i toni della retorica anti-palestinese e anti-araba. Particolarmente allarmante è stata la promessa di annettere parte della Cisgiordania se rieletto, mentre poco prima del voto aveva cercato senza successo di fare approvare una legge per installare telecamere nei seggi con l’obiettivo non ufficiale di scoraggiare il voto della minoranza araba.

Il risultato è stato tuttavia opposto. L’affluenza degli elettori arabi israeliani ha fatto segnare una nettissima impennata, passando dal 49% di aprile a oltre il 60%, non di molto inferiore cioè al dato generale (69,4%). A beneficiarne è stata la Lista Comune araba che, con i 12 seggi conquistati, è diventata la terza forza politica in Israele e, in caso di governo di unità nazionale, il suo leader, Ayman Odeh, sarebbe il leader ufficiale dell’opposizione. In quanto tale, quest’ultimo avrebbe diritto, almeno in teoria, a incontrare leader stranieri in visita in Israele, a una scorta pagata dallo stato, a consultarsi periodicamente con il primo ministro e a rispondere in parlamento agli interventi del capo del governo.

L’iniziativa politica passa ora nelle mani del presidente israeliano, il quale dovrà decidere a quale leader affidare per primo il compito di sondare il terreno per mettere assieme una maggioranza alla “Knesset”. Rivlin ha già fatto capire che ogni sforzo dovrà essere rivolto a evitare un terzo voto anticipato, così come ha confermato anche Lieberman, le cui indicazioni avranno prevedibilmente un peso particolare, visto gli scenari di stallo che si stanno profilando.

Per quanto riguarda Netanyahu, la sua posizione appare oggi precaria e, oltre alle dinamiche politiche interne che minacciano di spingerlo verso il punto più basso della sua carriera, le nubi per lui potrebbero addensarsi anche sul fronte dell’alleanza di ferro con Washington, a giudicare almeno dall’appoggio non esattamente entusiasta offertogli in campagna elettorale dal presidente Trump e dalle timide aperture della Casa Bianca verso l’Iran, solo parzialmente rientrate dopo il recente attacco contro gli impianti petroliferi sauditi.

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