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Difendere la terra e i beni comuni diventa sempre più rischioso e la possibilità di perdere la vita, quasi una certezza. Nell’ultima settimana, tre attiviste sono state uccise in Guatemala e Honduras. Il 14 settembre, Paulina Cruz Ruiz, autorità ancestrale maya Achi, è stata assassinata da sconosciuti in Baja Verapaz. Suo marito è in ospedale in bilico tra la vita e la morte. Paulina era molto attiva nei processi di organizzazione comunitaria e da tempo si opponeva a progetti minerari che minacciano il territorio.

Stessa sorte per Mirna Suazo Martínez, presidentessa del patronato della comunità di Masca e attivista per i diritti della popolazione garifuna honduregna, assassinata l’8 settembre da uno sconosciuto che ha fatto irruzione nel locale che gestiva. In questa zona la popolazione sta lottando contro la costruzione di due dighe e la possibile installazione di una “charter city”.

 

Un giorno prima, il 7 settembre, a colpi di arma da fuoco è stata uccisa, sempre in Guatemala, Diana Hernández Juárez. Maestra, difensore dei diritti umani e coordinatrice della pastorale per la salvaguardia dell’ambiente nella comunità Monte Gloria di Santo Domingo Suchitepéquez.

Per il momento nessuna traccia degli assassini e ancora meno dei mandanti, molto spesso vincolati ad aziende nazionali o a multinazionali che investono in attività estrattive o nel settore della produzione di energia elettrica, e ad amministrazioni locali colluse con traffici e interessi illeciti di vario tipo. Lo Stato è quindi complice, quando non mandante diretto degli omicidi.

Epidemia

La morte violenta di Paulina, Mirna e Diana è solo la punta di un gigantesco iceberg fatto di violenza e impunità. L’ultimo rapporto della ong britannica Global Witness “Nemici dello Stato?”, pubblicato un mese fa, dice che nel 2018 sono stati uccisi tre attivisti impegnati nella difesa della terra e dei beni comuni alla settimana. Una cifra comunque sottostimata, data la difficoltà a reperire i dati e i tanti omicidi che non vengono denunciati o che sono presentati come atti di delinquenza comune.

Incontabili invece gli episodi di “violenza non letale”, come minacce, persecuzioni, arresti, condanne giudiziarie, aggressioni verbali e fisiche. Gli attacchi mortali sono avvenuti principalmente in contesti legati al settore minerario ed estrattivo, a quello agroindustriale (monocolture su vasta scala) ed energetico (idroelettrico).

Il 51% dei 164 omicidi è avvenuto in America Latina, principalmente in  Colombia (24), Brasile (20), Guatemala (16), Messico (14) e Honduras (4). Le Filippine sono il paese più letale (30), mentre il Guatemala è quello che ha avuto l’aumento più consistente, quintuplicando gli omicidi di attivisti rispetto al 2017.

L’America Latina continua quindi a essere il continente più pericoloso per chi difende la terra e i beni comuni. L’impunità regna assoluta: circa il 90% degli attacchi mortali contro attivisti è rimasto impunito. In più della metà degli attacchi mortali si è potuto dimostrare il coinvolgimento diretto degli apparati di sicurezza dello Stato o di guardie private.

Estrattivismo

Acaparramento, saccheggio e militarizzazione dei territori, criminalizzazione della protesta, stigmatizzazione dei movimenti popolari e sociali, strategie per dividere le comunità e repressione contro dirigenti e leader comunitari, sono i principali strumenti del modello e della cultura estrattivista. Se da una parte governi e imprese sono responsabili dell’imposizione di progetti senza la consulta previa, libera e informata, prevista dalla convenzione 169 dell’Oil e il sistema giudiziario si sta velocemente convertendo in un’arma per criminalizzare chi difende la terra e i beni comuni, dall’altra le banche di sviluppo contribuiscono a violare i diritti fondamentali delle comunità e popolazioni indigene e ad alimentare la violenza, finanziando progetti e settori abusivi e abbandonando al loro destino le persone che difendono l’ambiente, segnala la ong britannica.

La situazione già di per sè allarmante potrebbe anche peggiorare. Global Witness avverte che il il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha più volte assicurato ai magnati dell’agroindustria e dell’estrattivismo che permetterà l’implementazione di progetti e megaprogetti all’interno dei territori ancestrali indigeni. In questi primi otto mesi del 2019 si sono moltiplicate le invasioni di terre da parte di persone armate e migliaia di incendi dolosi hanno ridotto in cenere parte della foresta amazzonica. L’ultraconservatore Bolsonaro ha chiuso entrambi gli occhi, cedendo un poco solo davanti alle proteste di buona parte della comunità internazionale.

Secondo l’Istituto nazionale di indagini spaziali, dall’inizio dell’anno sarebbero stati quasi 75 mila gli incendi nella parte brasiliana della più grande foresta pluviale del mondo, un incremento dell’84% rispetto allo stesso periodo del 2018. Stiamo parlando di circa 1,8 milioni di ettari andati in fumo.

Global Witness indica nel suo rapporto che l’unico modo per frenare questo stillicidio di vite è quello di attaccare le cause strutturali di questa situazione. Ciò significa “combattere la corruzione e l’impunità, garantire e rispettare i diritti territoriali, difendere la salvaguardia dell’ambiente e garantire il diritto delle comunità a dare o negare il proprio previo consenso libero e informato a progetti estrattivi, di produzione energetica, agroindustriali e turistici”. Allo stesso tempo è necessario un impegno dello Stato nella prevenzione delle aggressioni contro chi difende la terra e l’ambiente e nell’assicurare alla giustizia chi perseguita, minaccia, aggredisce e uccide. Senza una lotta seria contro l’impunità la situazione è destinata a peggiorare.