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Il comportamento del governo cinese nella gestione dell’epidemia di Coronavirus continua a venire falsamente indicato dall’amministrazione Trump come la causa – deliberata o accidentale – della diffusione del contagio in tutto il mondo e di un bilancio drammatico di vittime e contagi ancora lontano dall’essere definitivo. L’insistenza su questo punto è collegata tutt’altro che casualmente alla rischiosa riapertura in corso dell’economia americana e, vista l’inconsistenza delle prove contro Pechino, si basa in maniera inevitabile su fantomatiche informazioni di intelligence che ricordano sempre più la vergognosa campagna che precedette l’invasione dell’Iraq nel 2003.

 

A guidare la propaganda anti-cinese sono soprattutto il segretario di Stato, Mike Pompeo, e lo stesso presidente. Entrambi hanno alzato i toni della polemica nei giorni scorsi con interventi pubblici attentamente orchestrati per dare l’impressione che il governo di Washington disponga ormai di elementi che dimostrano incontrovertibilmente la colpevolezza di Pechino nell’esplosione planetaria del virus.

Pompeo ha parlato nientemeno che di “prove enormi” relative all’origine del COVID-19 da un laboratorio di ricerca di Wuhan. Questi elementi devono essere emersi a Washington solo poche ore prima delle dichiarazioni dell’ex direttore della CIA, poiché egli stesso settimana scorsa aveva ammesso a questo proposito l’assenza di “prove definitive”. A suo dire, la tesi americana sarebbe supportata anche dal fatto che in molte altre occasioni la Cina è stata responsabile di “avere infettato il pianeta”.

Sempre domenica, Trump ha puntato anch’egli il dito sul centro di ricerca di Wuhan, per poi criticare duramente le decisioni cinesi che avrebbero favorito la diffusione del virus oltre i confini del paese. Il presidente USA ha sostenuto che le autorità di Pechino avrebbero deciso a tavolino il propagarsi del contagio all’estero, verosimilmente per infliggere ad altri paesi le stesse sofferenze dal punto di vista economico e sanitario che la Cina ha subito a causa del Coronavirus.

In realtà, nonostante la pretesa di disporre di prove incontrovertibili, da Washington non è stato reso pubblico nulla che anche solo vagamente possa risultare incriminante per la Cina. Per apparire forse più credibile, Pompeo ha riconosciuto le posizioni pressoché unanimi della comunità scientifica sull’estrema improbabilità che il virus sia un prodotto dell’uomo. Il segretario di Stato ritiene però che esso sia uscito dal laboratorio di Wuhan, anche se non appare chiaro se per sbaglio o come scelta deliberata del governo cinese.

Come spesso accade, la parola dei leader americani e il contenuto sconosciuto di presunte informazioni di intelligence dovrebbero bastare a far trarre conclusioni definitive su un determinato evento. In questo caso, l’opinione dell’amministrazione Trump è ancora più assurda, perché tutte le informazioni pubbliche sulla questione e le prese di posizione della comunità scientifica internazionale vanno in direzione esattamente contraria.

L’atteggiamento americano non rappresenta comunque una novità. La clamorosa impreparazione degli Stati Uniti nell’affrontare il virus aveva fatto in modo già all’inizio dei contagi che la Casa Bianca assegnasse ad altri la responsabilità di quanto stava accadendo. La Cina era entrata subito nell’elenco dei colpevoli, anche se colloqui telefonici tra Trump e Xi Jinping, assieme al sovrapporsi di delicate questioni commerciali irrisolte, avevano temporaneamente allentato le tensioni.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) era stata a sua volta oggetto di critiche, ma il bersaglio era apparso poi inopportuno nel pieno della pandemia, anche se la Casa Bianca avrebbe poi deciso la sospensione dei finanziamenti americani a essa destinati. I cinesi erano allora tornati al centro degli attacchi americani, soprattutto per i ritardi con cui avrebbero ammesso la gravità della situazione e informato gli altri paesi.

Anche in questo caso, era sufficiente cercare tra le notizie di pubblico dominio per scoprire che tra la fine di dicembre e i primissimi giorni di gennaio la Cina aveva dato tutte le informazioni del caso all’OMS, la quale a sua volta aveva diramato l’allarme globale. Semplicemente, gli Stati Uniti hanno sprecato settimane che sarebbero state decisive per preparare il paese all’epidemia, mentre la Casa Bianca ha preferito negare a lungo la pericolosità del COVID-19 e salvaguardare gli interessi di Wall Street.

Se la questione dei ritardi continua a essere talvolta ripresa dagli accusatori di Pechino, da qualche tempo è la fuga del virus dal laboratorio di Wuhan ad andare per la maggiore. Le prove, in ogni caso, sono anche qui al momento inesistenti. Anche per questa ragione, il ruolo della stampa officiale nell’operazione di propaganda risulta fondamentale.

Invece di rilevare l’inconsistenza delle accuse, i media ufficiali negli USA e non solo continuano ad amplificare le critiche americane, dando a esse una certa legittimità. Il giornale australiano Saturday Telegraph ha ad esempio citato un rapporto stilato dalle agenzie di intelligence della cosiddetta alleanza dei “Cinque Occhi” (USA, Australia, Canada, Regno Unito e Nuova Zelanda) che, sulla base del nulla o nella migliore delle ipotesi di affermazioni smentibili da una semplice ricerca on-line, dimostrerebbe come Pechino abbia a lungo occultato le prove dell’esplosione dell’epidemia, favorendo la morte di decine di migliaia di persone in tutto il mondo.

Altri documenti “riservati”, visti presumibilmente in esclusiva dalla Associated Press, attaccano invece la Cina da un’angolatura in parte differente. L’agenzia di stampa è tornata sulla natura intenzionale della segretezza cinese, per poi spiegare questo comportamento con diaboliche manovre dirette all’accaparramento di materiale sanitario, sia facendone incetta all’estero sia limitandone le esportazioni. Visto che i fatti risalgono all’inizio del mese di gennaio, se anche le accuse fossero vere sembra esserci in esse ben poco di strano. In quel momento la Cina era praticamente l’unico paese a dover far fronte a una grave emergenza e, ad ogni modo, in seguito la corsa ai dispositivi sanitari necessari a combattere il virus ha comprensibilmente coinvolto molti altri paesi.

Come anticipato all’inizio, accuse e minacce contro la Cina si stanno intensificando proprio mentre la Casa Bianca e molte amministrazioni a livello statale negli USA spingono per far ripartire le attività economiche, incluse quelle non necessarie, nonostante l’epidemia sia probabilmente ancora in fase crescente. Se la curva dei contagi e dei decessi dovesse tardare a calare o, peggio ancora, finisse per impennarsi, il governo americano avrebbe bisogno ancora di più di presentare alla popolazione un capro espiatorio.

Lunedì, il New York Times ha rivelato un documento interno alla Casa Bianca, nel quale l’amministrazione repubblicana prevede un aumento costante dei casi nelle prossime settimane. I numeri appaiono sconvolgenti. A inizio giugno, i decessi potrebbero essere tremila al giorno e i nuovi contagi salirebbero quotidianamente di 200 mila unità rispetto alle 25 mila attuali.

Nel caso la situazione negli Stati Uniti dovesse seguire questo andamento, l’isteria anti-cinese farà dunque segnare un’ulteriore escalation, sostanzialmente per dirottare verso Pechino la rabbia causata dall’incompetenza della Casa Bianca e dalle decisioni prese a favore degli interessi del business privato. I provvedimenti che adotterà Washington potrebbero essere allora clamorosi, anche se dall’efficacia per lo meno dubbia. Già da qualche settimana si parla ad esempio di possibili cause legali e richieste di risarcimento alla Cina nell’ordine di centinaia di miliardi di dollari per i danni provocati dal virus o di un possibile default per la quota di debito americano detenuto da Pechino.

Oltre a questo aspetto, va considerato che l’offensiva propagandistica contro la Cina serve anche ad alimentare il confronto strategico con la seconda potenza economica del pianeta, già in atto da molto prima dell’emergenza Coronavirus. Non a caso, il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, in un intervento nel fine settimana su Fox News dedicato al nodo Cina-Coronavirus ha definito questo paese come “la più grande minaccia geo-politica per gli Stati Uniti nel prossimo secolo”.

In generale, la campagna anti-cinese in atto a Washington è da mettere in relazione con il declino della posizione internazionale degli Stati Uniti, aggravata ancora di più dalla crisi economica innescata dalla pandemia. Nessuna delle iniziative concrete o di propaganda che sta mettendo o metterà in atto il governo americano servirà comunque a invertire la tendenza in modo significativo. La gravità delle accuse, essendo in gioco centinaia di migliaia di morti e svariati punti percentuali di PIL polverizzati, rischia però di inasprire drammaticamente lo scontro e di avvicinare le due potenze a un pericoloso conflitto armato.