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Non si sono fermate nel fine settimana appena concluso le proteste di piazza che dal 10 gennaio scorso sono tornate a esplodere a Haiti contro il presidente appoggiato dagli Stati Uniti, Jovenel Moïse. La nuova crisi politica nel più povero dei paesi dell’emisfero occidentale rischia di fare esplodere definitivamente una situazione già segnata negli ultimi mesi da un ulteriore aggravarsi dell’emergenza economica, sociale e sanitaria.

 

Al centro dello scontro c’è il rifiuto di Moïse di abbandonare il proprio incarico il 7 febbraio scorso, data considerata dall’opposizione e dalla maggior parte della popolazione haitiana come quella che doveva segnare la fine del suo mandato. Moïse sostiene invece di avere diritto di restare alla guida del paese caraibico ancora per un anno e si impegna a lasciare la presidenza e a indire nuove elezioni entro il febbraio 2022.

La disputa ha origine nel caos delle presidenziali che portarono appunto al potere il candidato favorito sia da Washington sia dall’allora presidente uscente, Michel Martelly, notoriamente legato alla sanguinosa dittatura dei Duvalier, deposta nel 1986. Il voto si era tenuto una prima volta nell’ottobre del 2015, ma era stato poi annullato per via di brogli macroscopici e ripetuto nel novembre dell’anno successivo.

Anche se la ripetizione delle elezioni era stata segnata ugualmente da irregolarità e da un’affluenza irrisoria, Moïse era stato dichiarato ancora una volta vincitore. A suo dire, il mandato era iniziato solo dopo la seconda consultazione, nel febbraio 2017, poiché nei mesi seguiti al voto annullato era al potere un governo provvisorio. Riferendosi a quanto stabilito dalla Costituzione in caso di elezioni contese, anche la Corte Suprema e il Consiglio Superiore della Magistratura haitiane hanno respinto questa interpretazione.

La vicenda è senza dubbio il riflesso delle tendenze autoritarie di Jovenel Moïse. Ciò è testimoniato dal fatto che da oltre un anno il presidente governa senza la supervisione del parlamento (Assemblea Nazionale), il cui mandato è scaduto nel novembre 2019. Le elezioni legislative erano state posticipate inizialmente a causa di un’ondata di proteste popolari scoppiate contro l’inflazione alle stelle e in seguito per la pandemia di Coronavirus.

Moïse insiste anche per organizzare un referendum costituzionale, in programma il 25 aprile prossimo, che dovrebbe ratificare il rafforzamento dei poteri del presidente e modificare in maniera sostanziale la carta approvata sull’onda del movimento democratico del 1986. L’intenzione di Moïse sarebbe poi quella di organizzare elezioni legislative e presidenziali nel mese di settembre, secondo l’opposizione haitiana per legittimare la sua permanenza al potere almeno fino al febbraio 2022.

Da gennaio, quindi, sono iniziate massicce manifestazioni di protesta contro Moïse, intensificate all’inizio di febbraio e accolte con crescente durezza dalle forze dell’ordine. La rabbia popolare è alimentata dal peggioramento delle condizioni economiche nel paese, dovuto in maniera non indifferente dall’implementazione di misure di austerity dettate dal Fondo Monetario Internazionale. Alla crisi economica si deve aggiungere un peggioramento delle condizioni di sicurezza, con il dilagare di casi di rapimenti a scopo di estorsione.

La deriva anti-democratica dell’amministrazione Moïse è testimoniata inoltre da uno scandalo finanziario che ha contribuito ad accendere ancora di più gli animi tra gli haitiani. Il presidente e uomini a lui vicini sono cioè coinvolti in un piano per rivendere il petrolio fornito a prezzi di favore dal Venezuela e che ha sottratto circa 4 miliardi di dollari alle casse pubbliche.

Oltre a cercare di reprimere con la forza le proteste, Moïse nei giorni scorsi si era anche mosso per colpire i suoi oppositori tra le élite haitiane. Il giorno stesso della fine teorica del suo mandato aveva annunciato in una conferenza stampa pubblica l’arresto di 23 persone, tra cui un giudice della Corte Suprema, accusate di essere coinvolte in un tentativo di colpo di stato che includeva l’assassinio dello stesso presidente.

L’iniziativa di Moïse era arrivata poco dopo l’appoggio formale incassato da Washington. Il dipartimento di Stato USA aveva infatti approvato la tesi del mandato in scadenza solo nel 2022, sia pure aggiungendo un appello alla moderazione nell’esercizio del potere di fatto assoluto del presidente e a tenere elezioni legislative al più presto possibile. La stessa opinione l’ha espressa anche l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), come al solito allineata alle posizioni americane, offrendo alle manovre di Moïse un appoggio determinante.

Nonostante la retorica di Biden sul ritorno degli Stati Uniti al loro ruolo internazionale di difensori dei diritti umani e democratici dopo gli anni di Trump, il supporto garantito al regime di Jovenel Moïse è tutt’altro che sorprendente. Il controllo americano delle vicende interne haitiane è risaputo e include in tempi recenti due interventi militari diretti. Per quanto riguarda poi l’attuale regime, l’affinità tra Moïse e Trump, sotto la cui presidenza il primo è stato eletto e ha potuto consolidare la propria posizione, non deve far dimenticare il ruolo avuto dal Partito Democratico americano.

Da imprenditore semi-sconosciuto, Moïse era stato lanciato alla guida di Haiti dal suo predecessore, Michel Martelly, a sua volta selezionato da Hillary e Bill Clinton, quest’ultimo nel ruolo di inviato speciale delle Nazioni Unite per il paese caraibico. Le simpatie di Martelly per la dittatura della famiglia Duvalier, a sua volta appoggiata dagli USA, e i legami con gli squadroni della morte dei tempi del regime (“Tonton Macoutes”) non venivano considerati un fardello, ma erano anzi un elemento a favore dell’ex cantante haitiano, considerato l’uomo giusto, esattamente come Moïse, per perpetuare il dominio degli interessi americani, innanzitutto economici, a Haiti, basati in primo luogo sui benefici derivanti da una manodopera ultra-sfruttata e a bassissimo costo.

La presa di posizione dell’amministrazione Biden ha ad ogni modo aggravato lo scontro sull’isola. L’8 febbraio scorso i partiti dell’opposizione, con il sostegno della magistratura e molte organizzazioni della società civile haitiana, avevano deciso di proclamare presidente ad interim al posto di Moïse il giudice della Corte Suprema, Joseph Mécène Jean-Louis. Con questa decisione è esplosa a tutti gli effetti una crisi costituzionale che rischia di generare nuove e più gravi violenze, soprattutto alla luce dell’appoggio garantito a Moïse dalle forze armate. Quest’ultimo, per tutta risposta, ha rimosso dai loro incarichi tre giudici della Corte Suprema, incluso Jean-Louis.

In merito agli eventi registrati nelle strade della capitale, Port-au-Prince, e nelle altre principali città del paese, le ricostruzioni delle proteste andate in scena nel fine settimana confermano la volontà del regime di attuare una repressione sempre più dura. Da quanto riportato domenica dal Miami Herald, cioè una testata non esattamente ostile agli alleati USA e alle politiche di Washington in America Latina, risultano evidenti le provocazioni delle forze di sicurezza per giustificare il pugno di ferro.

Le testimonianze citate da giornale della Florida hanno raccontato di una marcia di migliaia di persone che in maniera pacifica chiedevano le dimissioni di Moïse e intendevano sfilare davanti alle sedi delle rappresentanze nel paese dell’OSA e dell’ONU. Il corteo era stato seguito da subito da mezzi della polizia e, quando i dimostranti sono arrivati nelle vicinanze dei luoghi più sensibili, è iniziato il lancio di gas lacrimogeni e l’uso di proiettili di gomma. Secondo alcuni testimoni citati dall’Herald, ci sarebbero stati anche almeno due giornalisti feriti e un morto non identificato, mentre già nelle dimostrazioni dei giorni precedenti erano state numerose le segnalazioni di intimidazioni contro membri della stampa che stavano raccontando gli eventi.

La più recente crisi a Haiti è seguita con apprensione soprattutto dagli ambienti “liberal” americani, preoccupati per le conseguenze dell’ennesimo sostegno garantito dal governo di Washington a un uomo forte con tendenze dittatoriali nell’isola del Mar dei Caraibi. Washington Post e New York Times hanno ad esempio dedicato editoriali alle proteste, puntando il dito contro una serie di leader autoritari e spesso “brutali” responsabili per le condizioni disperate degli haitiani. Allo stesso tempo, nemmeno un cenno i due giornali hanno fatto al ruolo degli Stati Uniti nel promuovere questi stessi “leader”, mentre è stata invece ricordata, in termini talmente benevoli da sconfinare in una involontaria auto-ironia, la tendenza della classe dirigente indigena a cercare “consigli” a Washington in tempi di crisi.

Con le tensioni alle stelle e di fronte alla minaccia concreta di un’esplosione sociale senza precedenti anche per gli standard haitiani, l’amministrazione Biden e i suoi sostenitori negli ambienti dei media stanno senza dubbio cercando una via d’uscita, molto probabilmente attraverso un qualche processo di “transizione” che, senza modificare di una virgola la situazione della stragrande maggioranza della popolazione indigena, salvaguardi gli interessi americani nella martoriata isola caraibica.