Le udienze in corso al Congresso di Washington per fare luce sull’attacco dei sostenitori di Trump stanno delineando un quadro preoccupante dei fatti straordinari accaduti il 6 gennaio scorso. Gli interventi più interessanti sono stati finora quelli degli ultimi giorni che hanno visto testimoniare davanti ad alcune commissioni del Senato esponenti di primo piano delle Forze Armate, del dipartimento per la Sicurezza Interna e dell’FBI. Lo scenario ricostruito ha evidenziato falle ed errori clamorosi, ma soprattutto l’atteggiamento sospetto di molti ai vertici delle agenzie responsabili della sicurezza nella capitale americana.

 

L’intervento di mercoledì del comandante della divisione di Washington della Guardia Nazionale, generale William Walker, ha fatto emergere le decisioni sconcertanti del numero uno del Pentagono al momento dei fatti, Christopher Miller, e dell’allora segretario dell’Esercito, Ryan McCarthy. Walker ha parlato di “restrizioni insolite” e “ritardi” inspiegabili nel dispiegamento di uomini a “Capitol Hill”, nonostante i segnali di pericolo circolati alla vigilia e la gravità della situazione nelle prime ore del pomeriggio del 6 gennaio.

Alle 13.49 di quel giorno, il comandante del corpo di polizia del Congresso, Steven Sund, aveva chiesto disperatamente l’intervento della Guardia Nazionale al generale Walker. Quest’ultimo si era allora rivolto a due generali, ma entrambi avevano respinto la richiesta proveniente dal Congresso. La giustificazione ufficiale era il problema di immagine che l’intervento di militari in un luogo così sensibile avrebbe generato. Lo stesso Walker, in risposta alla domanda di un senatore, ha però confermato come simili scrupoli non erano mai emersi durante le proteste contro le violenze della polizia la scorsa estate, quando l’impiego della Guardia Nazionale era stato tempestivo e diffuso.

Il generale Walker ha poi spiegato come fosse stato “insolitamente” privato della sua normale autorità di ordinare unilateralmente il dispiegamento degli uomini sotto il suo comando nella giornata del 4 gennaio. L’ordine era arrivato dai segretari Miller e McCarthy e imponeva la richiesta di autorizzazione addirittura anche per eventuali azioni di auto-difesa. Circa 155 uomini comandati da Walker avrebbero potuto essere operativi già dopo 20 minuti dalla richiesta della polizia del Congresso. Invece, il via libera sarebbe arrivato solo alle 17.08, cioè con un ritardo di tre ore e 19 minuti che lasciarono il generale Walker “sconvolto e frustrato”.

In questo periodo di tempo, durante il quale i rivoltosi avevano cercato di prendere il controllo del Congresso per fermare la certificazione della vittoria di Joe Biden, erano andate in scena con ogni probabilità accese discussioni tra la Casa Bianca e i vertici delle forze armate per decidere il da farsi. Il contenuto di esse e le responsabilità dei protagonisti restano però sconosciuti e, al momento, appare improbabile che i senatori democratici, per non parlare di quelli repubblicani, decidano di chiamare a testimoniare gli ex membri del gabinetto Trump.

Le ricostruzioni del comandante della Guardia Nazionale di Washington e degli altri testimoni confermano dunque i sospetti soprattutto su alcune personalità nominate da Trump, spesso nei giorni successivi alla sua sconfitta elettorale. In particolare sull’ultimo segretario alla Difesa dell’amministrazione repubblicana, Christopher Miller, piazzato al vertice del Pentagono nel quadro di una maxi purga che aveva coinvolto anche il suo predecessore, Mark Esper, finito sulla lista nera di Trump qualche mese prima per avere espresso parere negativo all’invio dell’esercito per reprimere le proteste contro la brutalità della polizia.

Trump, in altre parole, aveva cercato di installare fedelissimi in varie posizioni di governo, pronti ad assecondare le sue trame eversive per ribaltare con la forza l’esito delle elezioni presidenziali. Uno dei due generali che negarono inizialmente la richiesta di aiuti della polizia del Congresso era inoltre Charles Flynn, fratello dell’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, Michael Flynn, che poco prima dei fatti del 6 gennaio aveva invocato la legge marziale e la ripetizione del voto sotto il controllo dell’esercito negli stati vinti di misura da Biden.

Le dichiarazioni di Walker hanno confermato quanto avevano affermato settimana scorsa sia il già citato Steven Sund, ex comandante della polizia del Congresso, sia il numero uno della polizia della città di Washington, Robert Contee. Entrambi si erano detti “sbalorditi” dalla passività del Pentagono di fronte alla richiesta di rinforzi da inviare a “Capitol Hill”, anche davanti a una situazione sul punto di degenerare.

I fatti descritti vanno collegati alle dichiarazioni di martedì, sempre al Senato, del direttore dell’FBI, Christopher Wray, soprattutto perché smentiscono ancora una volta e, attraverso una voce più che autorevole, la versione della “sorpresa” e della “imprevedibilità” dell’attacco del 6 gennaio seguito a un infuocato comizio di Trump. Wray ha definito l’episodio un attacco “coordinato e pianificato” da parte di “milizie estremiste”. Lo stesso direttore della polizia federale USA ha poi smentito le teorie, proposte da svariati politici repubblicani e dagli ambienti di estrema destra, che il blitz al Congresso sia stato una provocazione di gruppi di sinistra, come “Antifa”, per farne ricadere la colpa di Trump.

L’FBI aveva inoltre distribuito prima del 6 gennaio alla polizia del Congresso e a quella di Washington rapporti di intelligence sul pericolo di azioni violente, anche se lo stesso “Bureau” non aveva tuttavia emesso un’allerta formale circa la minaccia che incombeva in concomitanza con la certificazione dell’esito del voto del 3 novembre 2020. Quest’ultima “mancanza” rappresenta uno degli aspetti più oscuri e inquietanti della vicenda e non è stato chiarito dalla testimonianza di Wray. Come già per gli ambienti delle forze armate, restano quindi molti dubbi sulle eventuali complicità con i piani di Trump anche all’interno dell’FBI.

La questione è ancora più rilevante se si pensa che la polizia federale ha senza dubbio una rete di informatori o infiltrati nelle varie milizie di estrema destra americane, alcune delle quali protagoniste dirette dell’assalto del 6 gennaio. A questo particolare è stato fatto un riferimento piuttosto chiaro durante l’audizione di Wray, quando la senatrice democratica Amy Klobuchar si è rammaricata per la presunta assenza di infiltrati nelle milizie fasciste filo-trumpiane, che avrebbero potuto contribuire a sventare l’attacco. In realtà, nelle scorse settimane la stampa USA aveva rivelato come il leader di uno di questi di gruppi (“Proud Boys”) fosse stato almeno nel recente passato un informatore dell’FBI.

La minaccia dell’estrema destra è in ogni caso ancora reale e crescente in parallelo al persistere del controllo sul Partito Repubblicano di Donald Trump e delle forze ultra-reazionarie. Lo stesso Christopher Wray ha avvertito che il “terrorismo domestico”, cioè di matrice neo-fascista, sta dilagando in tutto il paese. Infatti, mentre erano in corso le ultime udienze al Senato, l’FBI e il dipartimento per la Sicurezza Interna hanno diffuso un comunicato su un possibile nuovo attacco di formazioni estremiste contro il Congresso per la giornata di giovedì.

Il leader di maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, Steny Hoyer, ha di conseguenza deciso lo stop dei lavori per questa settimana. Il solo fatto che il Congresso abbia dovuto chiudere e cancellare le proprie sedute, nonostante gli oltre cinquemila uomini della Guardia Nazionale tuttora dispiegati a Washington, la dice lunga sulla profondità della crisi e sulla concretezza della minaccia che continua a incombere sulle istituzioni americane dopo gli eventi senza precedenti del 6 gennaio scorso.

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