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Gli scontri esplosi dopo il golpe militare del primo febbraio scorso in Myanmar stanno assumendo caratteri sempre più violenti in parallelo all’intensificarsi della mobilitazione dei lavoratori di molti settori industriali del paese asiatico. Lo scorso fine settimana si è registrato il dato singolo più pesante in termini di vittime provocate dalle forze di sicurezza, mentre tra la comunità internazionale stanno aumentando le pressioni sulla giunta che ha rimosso il governo semi-civile della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi.

 

La giornata di domenica ha segnato probabilmente un preoccupante cambio di passo nella strategia di contrasto alle proteste che stanno dilagando in molte città da parte del cosiddetto Consiglio Amministrativo di Stato, l’organo dei vertici militari birmani che ha assunto i pieni poteri. Il regime ha infatti dichiarato la legge marziale in alcuni distretti industriali della principale metropoli, Yangon, assegnando ai comandi militari il potere di “garantire la sicurezza, ristabilire la legge e riportare la calma in maniera più efficace”.

Una nuova escalation dello scontro era iniziata venerdì, quando una folla di persone si era ritrovata davanti a una stazione di polizia di Yangon per chiedere il rilascio di tre fratelli prelevati in precedenza dalla loro abitazione. Secondo i famigliari dei detenuti, a un certo punto la polizia avrebbe aperto il fuoco sui dimostranti, provocando due vittime. Il giorno successivo sono proseguite sia le manifestazioni sia le reazioni violente delle forze dell’ordine. A Yangon, secondo alcune ricostruzioni, ci sarebbero stati quattro morti e altrettanti in altre due località a nord della città e, ancora, quattro vittime nella seconda metropoli del paese, Mandalay.

La situazione è poi precipitata domenica con il centro dell’azione nel distretto di Hlaingthaya, sempre a Yangon, secondo il New York Times abitato in prevalenza da operai e caratterizzato finora dalle proteste più combattive contro il regime. L’intervento delle forze di sicurezza sarebbe avvenuto dopo che alcune fabbriche di proprietà cinese erano state date alle fiamme. Sulle responsabilità degli incendi non c’è chiarezza, ma il regime ha sfruttato l’evento per colpire duramente e dichiarare proprio in quest’area la legge marziale. Il bollettino alla fine è stato di 33 o 34 morti, a cui andrebbe aggiunto un agente di polizia. Complessivamente, domenica i morti sono stati almeno 51, ovvero il bilancio giornaliero più grave dal 3 marzo scorso, quando le vittime in tutto il paese erano state 28.

I militari, che hanno guidato direttamente la ex Birmania per gran arte della storia post-coloniale, avevano preso nuovamente il potere dopo avere denunciato brogli nelle elezioni parlamentari dell’8 novembre scorso, vinte largamente dal NLD di Aung San Suu Kyi. Per le autorità elettorali del Myanmar, non vi erano state invece irregolarità significative durante il voto. San Suu Kyi era finita agli arresti, così come il presidente del Myanmar e molti altri leader del partito di maggioranza. Nelle strade si erano subito riversate decine di migliaia di manifestanti, decisi a impedire il consolidamento del golpe e a chiedere il rispetto dei risultati elettorali. L’esempio delle precedenti repressioni condotte dai militari non ha fatto desistere una protesta che si è rapidamente allargata a molti settori industriali e che ha coinvolto anche non pochi lavoratori del settore pubblico.

Inizialmente, le forze di sicurezza avevano esercitato una relativa moderazione, nella speranza che la resistenza contro il regime finisse per svanire e alla luce dell’attenzione suscitata in tutto il mondo dalla rivolta in corso. Nelle ultime settimane è stata invece sempre più evidente la volontà di spegnere le proteste in modo violento, a dimostrazione delle pressioni che la giunta militare inizia a sentire con l’intensificarsi della mobilitazione popolare.

Una possibile svolta nelle vicende del Myanmar potrebbe essere avvenuta nel fine settimana anche per quanto riguarda il fronte internazionale. Gli eventi che hanno portato agli attacchi contro gli interessi cinesi nel paese del sud-est asiatico hanno infatti spinto Pechino a prendere per la prima volta una presa di posizione molto ferma a livello ufficiale. L’ambasciata cinese nella ex Birmania ha emesso un comunicato per chiedere lo stop a tutti gli atti di violenza e di “punire i responsabili in conformità con la legge”, in modo da garantire la sicurezza dei cittadini e delle compagnie cinesi nel paese. Il verificarsi di azioni anti-cinesi nell’ultimo periodo, al di là delle responsabilità dei singoli episodi, è il risultato del propagarsi di una versione, in larga misura appoggiata e amplificata da governi e media occidentali, che definisce Pechino come il principale sponsor dei militari birmani o, quanto meno, punta il dito contro la Cina per la mancata denuncia del golpe del primo febbraio.

Se ci sono effettivamente pochi dubbi sul fatto che la Cina, così come la Russia e altri paesi di minor peso, abbia finora evitato l’imposizione di misure punitive sostanziali tramite le Nazioni Unite, l’interpretazione delle vicende del Myanmar come un evento che ha favorito prevalentemente gli interessi di Pechino o, addirittura, che è stato coordinato tra la Repubblica Popolare e i militari birmani è a dir poco semplicistica.

Il Myanmar è indiscutibilmente un elemento centrale nei progetti infrastrutturali, commerciali e strategici cinesi riuniti nella formula della “Nuova Via della Seta” o, più precisamente, “Belt and Road Initiative”. In particolare, questo paese va inquadrato negli sforzi della Cina di aggirare le trafficatissime vie d’acqua che collegano l’Oceano Indiano e le sue coste sud-orientali, esposte in caso di conflitto a un rovinoso blocco navale da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. I porti e le vie di terra del Myanmar permettono di collegare molto più rapidamente e in modo sicuro le rotte provenienti da occidente con la provincia sud-occidentale dello Yunnan.

In questo scenario, l’obiettivo primario della Cina riguardo il Myanmar è di gran lunga la stabilità del paese. Infatti, Pechino aveva continuato a intrattenere rapporti molto stretti con la ex Birmania anche dopo la “transizione” democratica, inaugurata nel 2011 e accelerata nel 2015 con il trionfo elettorale del NLD. Anzi, una volta ridimensionato l’entusiasmo americano e dell’Occidente in genere, la Cina aveva consolidato le proprie posizioni in Myanmar costruendo una solida partnership con il governo civile guidato da Aung San Suu Kyi.

Lo stato dei rapporti bilaterali precedenti il primo febbraio rende perciò insensata l’ipotesi di una qualche collaborazione tra Pechino e i generali birmani nella conduzione del golpe. La Cina, piuttosto, coerentemente con i principi di pragmatismo e (relativa) non interferenza negli affari interni di uno stato sovrano, ha assunto una posizione cauta, invitando al dialogo per risolvere la crisi e astenendosi dal condannare i fatti come un colpo di stato, evidentemente per non inimicarsi i militari. La prudenza cinese va collegata anche alla complessità delle posizioni tenute storicamente nei confronti delle minoranze etniche birmane che animano spinte autonomiste o vere e proprie guerriglie contro il governo centrale.

L’atteggiamento dell’Occidente ha avuto invece come obiettivo fin dall’inizio quello di sfruttare gli eventi per esercitare pressioni su Pechino, in modo da mettere alle strette la leadership cinese, nel tentativo di allentare la propria influenza sul Myanmar. Come ha riassunto il commentatore nordirlandese Finian Cunningham sul sito web del network russo Sputnik, “se Pechino non condanna [il golpe e la repressione], i manifestanti possono essere spinti a prendere di mira le infrastrutture cinesi” in Myanmar e, di conseguenza, l’Occidente ha a disposizione materiale per continuare a denunciare il comportamento della Cina. Se, al contrario, “la Cina dovesse condannare [il golpe e la repressione]”, sarebbero le relazioni con i militari birmani a farne le spese.

Per quanto riguarda infine le prospettive delle manifestazioni, anche l’eventuale ristabilimento del legittimo governo del NLD non rappresenterebbe un esito in grado di garantire uno sbocco realmente democratico alla crisi. Proteste e resistenza contro i militari hanno portato più di una volta negli ultimi decenni al ristabilimento di un governo civile in Myanmar, salvo poi assistere a una nuova deriva autoritaria.

La storia degli ultimi cinque anni, segnati dall’emergere della figura di Aung San Suu Kyi, contribuisce a spiegare le ragioni di questa involuzione. Arrivato al potere grazie a un sonoro successo alle urne, il partito NLD ha finito per assecondare i militari birmani e rinunciato a mettere in discussione il sistema creato da questi ultimi per garantirsi costituzionalmente un ruolo di primissimo piano nella gestione degli affari più importanti del paese.

San Suu Kyi, soprattutto, è diventata una sorta di portavoce di quei militari che l’avevano costretta in stato di detenzione per molti anni della sua vita e che l’hanno ora riarrestata, arrivando fino a umiliarsi davanti alla comunità internazionale per difendere il genocidio contro la minoranza musulmana Rohingya. L’installazione al potere del NLD ha in definitiva favorito la smobilitazione delle forze popolari, riemerse dopo la “transizione democratica” inaugurata un decennio fa, e la legittimazione delle forze armate che avevano governato il paese col pugno di ferro e soffocato nel sangue numerose rivolte.

Alla fine, così, quando la popolarità del NLD e di San Suu Kyi è stata confermata dalle urne e si prospettava il possibile timido superamento del sistema bloccato a favore dei militari, questi ultimi sono intervenuti e il risultato è stato un nuovo bagno di sangue. Ciò che resta è una crescente rivolta popolare contro il regime che, tuttavia, rischia di limitarsi a un appello ai governi occidentali, impegnati di fatto soltanto nella promozione dei propri interessi strategici, o al ristabilimento di un altro governo del NLD, con ogni probabilità ancora una volta sotto la tutela dei vertici militari.