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Secondo alcune recenti rivelazioni giornalistiche, i governi di Iran e Arabia Saudita starebbero discutendo una possibile de-escalation delle tensioni e, nella migliore delle ipotesi, la creazione di un meccanismo regionale per gestire i conflitti tra i soggetti che fanno capo alle sfere di influenza dei due paesi. Il percorso verso il disgelo resta lungo e con molti ostacoli, ma che ci si trovi di fronte almeno a un abbassamento dei toni e sia in atto il tentativo di intavolare un dialogo serio appare ormai evidente. Le cambiate priorità strategiche dell’amministrazione Biden, con la revisione delle politiche mediorientali americane, potrebbero essere il motore di una clamorosa, anche se relativa, riconciliazione tra Teheran e Riyadh.

 

Il Financial Times aveva dato notizia per primo di un vertice tenuto a Baghdad tra esponenti di spicco dell’apparato della sicurezza nazionale dell’Iran e dell’Arabia Saudita. Il vertice si sarebbe svolto all’inizio di aprile e tra i presenti vi erano il numero uno dell’intelligence saudita, Khalid al-Humaidan, e il vice-segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale della Repubblica Islamica, Ameer Saeed Iravani. Pubblicamente, entrambi i governi avevano smentito l’incontro, ma fonti irachene e iraniane lo avevano invece confermato. Un comunicato ufficiale emesso da Riyadh aveva inoltre lasciato intendere le cambiate intenzioni della monarchia wahhabita, dal momento che affermava il proposito di “perseguire qualsiasi opportunità per promuovere pace e stabilità nella regione”, a patto che Teheran mostri “buona volontà” e interrompa le proprie “attività maligne”.

Le stesse fonti irachene citate dal Financial Times avevano assicurato che i rappresentanti dei due paesi si vedranno nuovamente a Baghdad nel mese di maggio e i protagonisti potrebbero essere addirittura i rispettivi ambasciatori in Iraq. A fare da mediatore è il primo ministro iracheno, Mustafa al-Kadhimi, che ha tutto l’interesse a favorire una distensione e impedire che sul territorio del suo paese si consumi la rivalità e la competizione per l’influenza regionale tra Teheran e Riyadh.

Gli interessi dei due paesi si scontrano com’è noto in svariati altri teatri di crisi in Medio Oriente e una qualche intesa bilaterale sarebbe teoricamente in grado di mostrare la strada per la risoluzione di accesissimi conflitti, dallo Yemen alla Siria fino al Libano. Iran e Arabia Saudita avevano rotto formalmente i rapporti diplomatici nel 2016, quando il regime di Riyadh aveva condannato a morte un importante leader religioso sciita. Dopo l’esecuzione era esplosa la protesta contro Riyadh, culminata nell’assalto a due rappresentanze diplomatiche saudite in Iran.

Visto il livello molto basso di fiducia reciproca, il dialogo potrebbe avere un primo obiettivo minimo. La ricercatrice del Carnegie Endowment for International Peace di Washington, Yasmine Farouk, ha spiegato in un’intervista al New York Times come ci si possa attendere che la priorità immediata sia “il raggiungimento di una sorta di accomodamento sulla sicurezza regionale”, simile a quello che caratterizzava i rapporti tra i due paesi negli anni precedenti la rottura.

La rovinosa guerra in Yemen, scatenata dall’aggressione saudita nel 2015, sembra avere un rilievo speciale nelle discussioni in corso. Il regime del principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) sta cercando chiaramente una via d’uscita e punta a un accordo con i “ribelli” Houthis yemeniti attraverso quello che ritiene lo sponsor principale di questi ultimi, cioè il governo iraniano.

La questione dello Yemen esemplifica alla perfezione il dilemma saudita esploso dopo l’arrivo di Biden alla Casa Bianca. L’approccio della nuova amministrazione democratica è apparso da subito ben diverso da quello di Trump, disposto ad appoggiare in tutto e per tutto i regimi sunniti del Golfo Persico. Biden, al contrario, aveva manifestato la propria contrarietà alla prosecuzione di una guerra come quella nello Yemen che, come minimo, continua a creare gravissimi problemi di immagine e non aiuta il processo diplomatico per la riesumazione dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA).

Più in generale, Biden aveva annunciato una revisione dei rapporti tra USA e Arabia Saudita, ma le frustrazioni nei confronti degli eccessi del regime guidato di fatto da MBS erano già palesi almeno dalla sospensione di alcune forniture militari destinate al regno e dalle critiche, sia pure non seguite da provvedimenti concreti, per la situazione dei diritti umani. Biden aveva anche reso pubblico il rapporto dell’intelligence americana sull’assassinio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, il cui mandante era stato individuato nello stesso principe bin Salman.

Il cambiato atteggiamento saudita nei confronti dell’Iran ha dunque una ragione di opportunismo, da collegare appunto ai problemi che deriverebbero dall’insistenza nel mantenere una linea dura verso il nemico sciita proprio mentre l’alleato americano intende modificare, almeno dal punto di vista tattico, la linea dura di Trump. Le aperture di Riyadh sono state confermate dallo stesso MBS in un’intervista rilasciata settimana scorsa a una rete saudita. Il principe insisteva nell’identificare “alcuni comportamenti negativi” di Teheran, ma esprimeva la speranza di “costruire una partnership positiva in grado di beneficiare tutte le parti” coinvolte negli scenari mediorientali.

Il realismo mostrato dal leader saudita potrebbe addirittura essere inquadrato in una prospettiva più ampia se un’altra rivelazione, questa volta del sito di news con sede in Gran Bretagna Amwaj.media, dovesse corrispondere a realtà. Il fermento diplomatico potrebbe essere cioè in atto dal mese di gennaio e includerebbe non solo Iran e Arabia Saudita, ma anche Emirati Arabi, Giordania ed Egitto. Secondo il sito, almeno cinque incontri tra i rappresentanti di questi paesi sono stati organizzati dall’inizio dell’anno.

Se così fosse, è facile ipotizzare che gli argomenti trattati sono molteplici e, come ha spiegato l’accademico iraniano Trita Parsi in un’analisi per il magazine Foreign Policy, il coinvolgimento di “altre potenze mediorientali, oltre a Iran e Arabia Saudita, suggerisce l’esistenza di un dialogo regionale e non solo di un negoziato bilaterale per ridurre le tensioni”. Per lo stesso autore, un altro aspetto positivo sarebbe l’autonomia con cui questi paesi mediorientali starebbero impostando il dialogo in corso, senza cioè imposizioni da parte degli Stati Uniti o di altri attori esterni.

È comunque innegabile che Washington abbia giocato un ruolo determinante, lanciando un messaggio inequivocabile a Riyadh per attenuare alcune delle posizioni più radicali del regime nel quadro del riassetto delle priorità americane nella regione. Un consigliere di Biden ha riassunto alla testata on-line Politico le intenzioni della Casa Bianca, da cui deriva la necessità di favorire una de-escalation tra Teheran e Riyadh. L’amministrazione Biden, cioè, “è estremamente determinata a non farsi trascinare [in altri conflitti] in Medio Oriente”.

Come per l’annunciato ritiro delle forze di occupazione dall’Afghanistan entro l’11 settembre prossimo, il passo indietro americano in Medio Oriente risponde al nuovo imperativo strategico degli Stati Uniti, rappresentato dai preparativi per un confronto con le grandi potenze che insidiano il primato planetario di Washington. Questo riassetto strategico si traduce in uno spostamento dell’attenzione e delle risorse USA verso oriente per contrastare in primo luogo la “minaccia” cinese.

Da qui deriva la necessità non tanto di diminuire la presenza in Medio Oriente, che resta un’area cruciale, quanto di limitare al minimo i rischi di nuovi conflitti che potrebbero costringere gli Stati Uniti a intervenire proprio mentre la competizione globale si sta spostando verso l’Asia orientale. Da qui, ancora, ha origine l’input recepito dai leader sauditi per frenare la corsa verso lo scontro con la Repubblica Islamica, a sua volta al centro delle manovre americane, tramite i negoziati per la riattivazione del JCPOA, volti a ostacolare il cammino di Teheran verso l’integrazione euro-asiatica promossa dagli ambiziosi piani di Pechino.

Questi processi sono in ogni caso ancora in una fase embrionale ed è tutt’altro che scontato che possano trovare un esito positivo. Uno scoglio difficile da superare sarà ad esempio il riconoscimento dei legittimi interessi dell’Iran nella regione e come questi verranno inseriti in una trattativa che dovrà includere concessioni a tutte le parti in causa. Resta il fatto, tuttavia, che per la prima volta dopo almeno quattro anni sembra intravedersi in Medio Oriente un minuscolo spiraglio di luce in grado potenzialmente di invertire le tendenze distruttive che continuano ad alimentare le tragedie in paesi come Yemen, Siria, Libano e Iraq.