L’incontro di questa settimana alla Casa Bianca tra il presidente americano Biden e il primo ministro iracheno, Mustafa al-Kadhimi, avrebbe dovuto segnare un punto di svolta nell’impegno degli Stati Uniti nel paese mediorientale. I due leader hanno infatti annunciato la fine della “missione di combattimento” USA entro il prossimo dicembre. Il numero di soldati e “contractor” sul campo resterà tuttavia quasi certamente invariato. L’utilità del faccia a faccia e della decisione presa in apparenza di comune accordo sembra essere perciò trascurabile, ma risponde alle esigenze strategiche di Washington e Baghdad, nonché ai calcoli politici immediati delle rispettive amministrazioni.

 

Per sgomberare il campo da equivoci sulla permanenza americana in Iraq, anche il New York Times ha definito l’annuncio di lunedì come un pezzo di “teatro diplomatico” che “non farà molto di più che formalizzare l’attuale stato delle cose”. Il direttore del programma per il Medio Oriente del think tank U.S. Institute of Peace, Sarhang Hamasaeed, in un’intervista allo stesso giornale ha aggiunto che “l’obiettivo delle due parti è che nulla cambi e che i circa 2.500 militari americani rimangano [in Iraq] per fare ciò che stanno già facendo”.

Dopo l’invasione del 2003 e la distruzione letterale della società irachena negli anni successivi, gli Stati Uniti lasciarono formalmente il paese che fu di Saddam Hussein nel 2011 per poi tornare con un contingente ridotto tre anni più tardi grazie a un accordo con il governo di Baghdad per fermare l’avanzata dello Stato Islamico (ISIS). Questa organizzazione jihadista è stata in larga misura sconfitta nel 2017, soprattutto per merito dell’iniziativa separata delle milizie sciite irachene in seguito incorporate nelle forze di sicurezza statali, e lo stesso comando americano della missione anti-ISIS aveva archiviato di fatto le operazioni di combattimento già lo scorso anno.

Il passaggio a compiti di “addestramento” e di “consulenza” alle forze indigene, in cui consiste appunto il senso dell’accordo sottoscritto lunedì tra Biden e Kadhimi, era stato dunque anch’esso già stabilito di fatto nel 2020. In questo contesto, gli USA avevano poi riconsegnato otto basi all’esercito iracheno, consolidando la loro presenza a Baghdad, Erbil e nella provincia di Anbar.

Come ha spiegato lunedì il presidente americano, il ruolo dei militari del suo paese sarà di mettersi a “disposizione per continuare l’addestramento [degli iracheni], per assisterli e aiutarli a far fronte all’ISIS, se ce ne fosse bisogno”, ma “entro la fine dell’anno non saremo più impegnati in missioni di combattimento”. Il vertice alla Casa Bianca è stato il primo in assoluto tra i due leader e il quarto round del cosiddetto “dialogo strategico” bilaterale, iniziato dall’amministrazione Trump. Della delegazione ricevuta a Washington hanno fatto parte anche rappresentanti del governo regionale del Kurdistan iracheno.

L’impressione di un’iniziativa per lo più formale e di natura politica è emersa anche in seguito al mancato chiarimento circa il numero di soldati americani che resteranno in Iraq alla fine dell’anno. Fonti governative USA hanno prospettato “ulteriori aggiustamenti”, ma il Pentagono non ha per il momento emanato direttive intese a modificare numericamente il contingente impiegato nel paese mediorientale.

Il meeting di Washington e l’ostentazione di un accordo che nel concreto cambia di poco o nulla l’impegno degli Stati Uniti in Iraq serve in primo luogo a togliere qualche pressione interna sul premier Kadhimi. Almeno a partire dall’assassinio da parte americana nel gennaio del 2020 a Baghdad del comandante dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, Qassem Soleimani, e di uno dei più importanti leader delle milizie sciite irachene, Abu Mahdi al Muhandis, le forze politiche e le organizzazioni paramilitari filo-iraniane chiedono con insistenza la fine della presenza USA nel paese. Dopo quell’episodio, il parlamento iracheno aveva anche approvato una risoluzione non vincolante, e infatti ignorata da Washington, per chiedere il ritiro di tutte le forze americane nel paese.

Le tensioni si sono inoltre moltiplicate in seguito ad alcuni attacchi condotti dalle milizie sciite contro le rimanenti basi americane in Iraq. Attacchi a cui hanno fatto seguito le ritorsioni degli Stati Uniti. Il pericolo di un aggravamento dello scontro rischia così di avere pesanti conseguenze sul governo di Kadhimi, atteso da elezioni nel mese di ottobre, e sulla stessa stabilità dell’Iraq, per buona parte dipendente dagli equilibri delle relazioni tra Washington e Teheran.

È comunque evidente che quella concordata lunedì a Washington è una misura di facciata e ufficialmente non riuscirà a soddisfare le richieste di quanti chiedono l’espulsione dei soldati americani dall’Iraq. Le formazioni vicine all’Iran hanno infatti subito criticato l’intesa di Washington, come la milizia Kataib Hezbollah, una delle più influenti nel paese, il cui portavoce ha respinto ogni soluzione che lasci i militari USA in Iraq, qualunque sia il loro ruolo. In alcuni casi ci sono state però reazioni relativamente positive, come dall'altra milizia sciita Hasd-al-Shaabi, che ha giudicato l’accordo tra Biden e Kadhimi come “un passo verso la piena sovranità dell’Iraq”.

Se l’opposizione alla presenza americana in Iraq della galassia sciita filo-iraniana e dello stesso governo di Teheran è fuori discussione, entrambi riconoscono la delicatezza della questione e, con ogni probabilità, preferiscono un approccio graduale. Una decisione radicale in questo senso finirebbe per destabilizzare il governo di Baghdad, col rischio di far riesplodere la violenza settaria, e metterebbe in pericolo le già complicate trattative sulla riattivazione dell’accordo sul nucleare della Repubblica Islamica (JCPOA), in corso a singhiozzo dal mese di aprile a Vienna.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, in alcuni casi sui media occidentali si è cercato di proporre un parallelo tra il disimpegno dall’Afghanistan e quello relativo all’Iraq. La situazione è tuttavia diversa. In merito a quest’ultimo paese rimane l’imperativo di occupare uno spazio cruciale in Medio Oriente per contrastare l’influenza dell’Iran che, evidentemente, ha costruito legami molto solidi in Iraq.

Allo stesso tempo, la presenza militare americana in Iraq è fondamentale dal punto di vista logistico per sostenere l’occupazione, oggettivamente illegale, di una porzione di territorio nel nord-est della Siria. Alcune stime parlano di circa 900 militari americani in quest’area, ufficialmente dispiegati per appoggiare la guerra delle milizie curde contro ciò che resta dello Stato Islamico, ma in realtà per impedire il ritorno di un territorio ricco di petrolio sotto il controllo del governo di Damasco.

Altro discorso è rappresentato dalla sostenibilità nel medio e lungo periodo della presenza militare americana in Iraq e, di conseguenza, in Siria. A rendere problematiche la situazione per Washington è in primo luogo la già ricordata ostilità di buona parte della popolazione e di almeno la metà della classe dirigente irachena, così come le pressioni dell’Iran e dei suoi alleati mediorientali, per non parlare della necessità di riorientare le priorità strategiche USA verso Oriente e, in particolare, verso la competizione con la Cina.

Se gli sforzi degli Stati Uniti per conservare la propria presenza in Iraq devono essere giudicati dagli impegni materiali usciti dal vertice di questa settimana, le prospettive non appaiono confortanti per la Casa Bianca. L’amministrazione Biden ha infatti promesso, tra l’altro, un contributo di appena 155 milioni di dollari da destinare ad “assistenza umanitaria”, poco più di 5 milioni a sostegno di una missione di osservatori ONU per le prossime elezioni e, in un paese che conta circa 40 milioni di abitanti, 500 mila dosi di vaccino anti-COVID prodotte da Pfizer/BioNTech.

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