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Le crescenti divergenze strategiche tra Stati Uniti ed Europa sono ormai un elemento acquisito nella realtà delle relazioni internazionali, ma alcuni eventi delle ultime settimane sono sembrati accelerare questo processo, mettendone in evidenza le implicazioni soprattutto per quanto riguarda l’approccio alla “questione cinese”. Il fattore più rilevante è stato l’accordo relativamente a sorpresa tra USA, Regno Unito e Australia (“AUKUS”) per la fornitura di sommergibili nucleari a quest’ultimo paese. Accordo che ha spiazzato in particolare la Francia, protagonista a sua volta questa settimana di una diatriba con Washington al Fondo Monetario Internazionale (FMI) che solo per poco non è sfociata in uno scontro aperto tra i due alleati.

 

La vicenda dei sommergibili ha com’è noto comportato la cancellazione di un mega-contratto da 56 miliardi di euro che Canberra aveva sottoscritto con Parigi, ma, ancor più, ha mandato un messaggio chiarissimo circa le priorità americane in un’area del pianeta su cui la Francia ha dichiarato da tempo di voler promuovere i propri interessi. In Asia orientale o, secondo la formula inventata da Washington, nella regione “indo-pacifica”, gli Stati Uniti hanno scelto cioè di privilegiare due alleati storici come Regno Unito e Australia, non a caso membri del ristrettissimo club dei cosiddetti “Cinque Occhi”, per avanzare l’agenda di contenimento delle ambizioni di Pechino.

La creazione del “AUKUS” ha innescato amare recriminazioni a Parigi, motivate non solo dalla perdita economica per la mancata fornitura di sommergibili “convenzionali” all’Australia, ma anche e soprattutto per il ridimensionamento precoce dei progetti da grande potenza di Macron in un’area esposta all’influenza economica e commerciale della Cina.

In un quadro più ampio, il tentavo dell’amministrazione Biden di serrare le fila con gli alleati anglofoni ha scatenato una valanga di commenti e dichiarazioni sulla necessità dell’Europa di perseguire una politica estera indipendente, ovvero non più vincolata a quella degli Stati Uniti. Il punto centrale del conflitto è rappresentato appunto dalla Cina e dalle dinamiche di integrazione in ambito economico, commerciale e della sicurezza che interessano l’area euro-asiatica.

In questo scenario, nei giorni scorsi è arrivata un’intervista al New York Times del ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, concessa durante il suo soggiorno a Washington per la riunione biannuale del FMI. Le parole di Le Maire sono emblematiche del clima che si respira sull’asse atlantico e assomigliano molto a una dichiarazione programmatica di un’Europa avviata sulla strada dell’indipendenza strategica dagli USA.

Nel commento all’intervista, il Times riassume il pensiero del ministro francese scrivendo che le politiche di USA e UE nei confronti della Cina sono sostanzialmente inconciliabili. Le Maire spiega infatti che, mentre l’Europa intende “coinvolgere” e cooperare con Pechino, Washington punta a “contrastare” la crescita e l’espansione cinese. Gli Stati Uniti vedono la Cina come una minaccia e, prosegue il numero uno delle Finanze di Parigi, vogliono impedire che “diventi la prima superpotenza del pianeta tra qualche anno o decennio”.

Alla domanda se questa realtà comporti una “divergenza tra America ed Europa”, Le Maire risponde affermativamente, sempre che tutte le parti in causa non agiscano “con cautela”. La soluzione proposta non lascia tuttavia sereni, visto che non mira alla creazione di un qualche meccanismo in grado di conciliare gli interessi contrastanti, bensì a inserire nell’equazione un ulteriore fattore destabilizzante, ovvero un’Europa dotata di tutti gli strumenti da grande potenza, soprattutto di carattere militare.

Per evitare un conflitto tra USA e UE, continua Le Maire, Washington dovrebbe “riconoscere l’Europa come una delle tre superpotenze mondiali del 21esimo secolo”, ovviamente assieme alla Cina e agli stessi Stati Uniti. Il ministro francese si è poi dilungato nell’esporre gli obiettivi europei, spiegando che l’Unione deve diventare “indipendente dagli USA” ed essere in grado di “difendere i propri interessi, siano essi economici o strategici”. Questa supposta indipendenza significa, nel concreto, possedere le capacità di difendersi, “di difendere i propri progetti per combattere il cambiamento climatico, di difendere i propri interessi economici e di avere accesso alle tecnologie-chiave” senza dipendere dall’America.

Se Le Maire cerca di prospettare un futuro prossimo nel quale gli Stati Uniti potrebbero accettare di competere, pacificamente e nel quadro di un sistema di regole comunemente accettate, con Europa e Cina, la realtà minaccia di essere del tutto diversa. Il comportamento americano, apparso evidente durante l’amministrazione Trump e sostanzialmente confermato dall’attuale presidente democratico, tende infatti sempre più a non ammettere tentennamenti o ambiguità tra gli alleati circa l’allineamento ai propri interessi né, tantomeno, ad accettare minacce alla supremazia americana su scala globale.

A conferma di ciò, le questioni principali, elencate da Le Maire e completate dal New York Times, attorno alle quali Washington dovrebbe in qualche modo venire incontro all’Europa per riconoscere la legittimità delle aspirazioni di quest’ultima sono in definitiva una lista, ancorché incompleta, dei fattori di scontro che hanno agitato i rapporti transatlantici negli ultimi anni. Tutte le questioni, inoltre, appaiono di difficile soluzione, proprio perché implicano un rafforzamento delle ambizioni della classe dirigente europea, come appunto l’impegno USA per una politica di difesa indipendente del vecchio continente e il riconoscimento delle sue “ambizioni strategiche” nella regione indo-pacifica.

Un’altra questione fondamentale, a cui ha fatto riferimento lo stesso ministro delle Finanze francese, riguarda poi i dazi doganali imposti da Trump nel 2018 sulle importazioni americane di acciaio e alluminio. Nelle prossime settimane si terranno negoziati in proposito tra le delegazioni di Europa e Stati Uniti, ma Le Maire già prevede che le discussioni saranno “complicate” e ha avvertito che, senza un accordo, da questa parte dell’Atlantico a partire dal primo dicembre verranno applicati dazi su una serie di prodotti americani come ritorsione contro quelli decisi da Washington.

Proprio mentre Le Maire si trovava a Washington, un altro confronto tra Europa e Stati Uniti si consumava al Fondo Monetario Internazionale, questa volta concluso con una soluzione favorevole alla prima. La direttrice del FMI, Kristalina Georgieva, era infatti al centro di una polemica attorno al suo ruolo nella presunta manipolazione di un rapporto della Banca Mondiale, dove lavorava prima di ottenere l’attuale incarico, sul clima più o meno favorevole al business nei vari paesi del pianeta.

Nello specifico, l’economista bulgara era accusata di avere fatto pressioni per migliorare il giudizio sulla Cina, in modo da favorire un aumento dei contributi finanziari di Pechino alla Banca Mondiale. Il comportamento della Georgieva era stato oggetto di un’indagine di uno studio legale privato americano, commissionato dal presidente americano della stessa Banca Mondiale, il falco anti-cinese David Malpass. Il procedimento ha avuto aspetti che molti osservatori indipendenti hanno giudicato poco trasparenti, ma in fin dei conti la disputa ha assunto contorni prettamente politici.

Da una parte, gli Stati Uniti e il Giappone chiedevano la testa della Georgieva perché, nelle parole di un noto economista, “non abbastanza ferocemente anti-cinese” e dall’altra un blocco formato dai principali paesi europei, da quelli asiatici e africani che difendevano la direttrice. La posizione della direttrice del FMI è diventata così una contesa riconducibile al confronto in atto sul multipolarismo e sul peso che potenze come la Cina debbano avere negli organi internazionali tradizionalmente dominati dagli Stati Uniti.

Alla fine, Kristalina Georgieva è stata confermata alla testa del Fondo dopo che gli Stati Uniti hanno desistito, probabilmente per evitare di aprire un nuovo fronte di scontro con l’Europa in un frangente già surriscaldato da altre questioni, come quella dei sommergibili e del “AUKUS” Le dichiarazioni ufficiali USA, tuttavia, hanno lasciato intendere che la posizione della Georgieva, la cui nomina nel 2019 era stata promossa principalmente dalla Francia, resta precaria. Infatti, nel prossimo futuro le accuse appena archiviate potrebbero essere rispolverate e moltiplicate, soprattutto se la direttrice del FMI dovesse assecondare le tendenze multipolari che minacciano di scardinare il sistema di “regole” che dalla fine del secondo conflitto mondiale favoriscono il dominio globale degli Stati Uniti.