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La trasferta di inizio settimana in Giappone del presidente americano Biden potrebbe avere segnato un cambiamento di strategia nella gestione del nodo di Taiwan da parte di Washington, con la possibile accelerazione di iniziative ultra-provocatorie nei confronti di Pechino sull’esempio di quanto sta accadendo con la crisi in Ucraina. La decisione di alimentare le tensioni con la Cina comporta gli stessi rischi imposti all’Europa di una guerra nucleare, ma rientra d’altra parte nei piani disperati della classe dirigente degli Stati Uniti per cercare di impedire il consolidarsi della posizione dei propri rivali a livello globale.

 

Il processo di revisione delle posizioni USA riguardo a Taiwan non è cominciato in questi giorni, né è un’iniziativa solo dell’amministrazione Biden. La riformulazione di fatto del principio di “una sola Cina”, tuttora politica ufficiale di Washington, è il risultato almeno della “svolta” asiatica inaugurata da Obama. Trump, in seguito, aveva moltiplicato le provocazioni attraverso l’approvazione di quantità sempre più consistenti di armi e la promozione di incontri ad alto livello tra esponenti del governo americano e di Taipei.

Lo scontro tra Washington e Pechino ha fatto però segnare una nuova escalation martedì, quando Biden, rispondendo alla domanda di un giornalista, ha affermato che il suo paese è determinato ad agire militarmente in appoggio di Taiwan se la Cina dovesse invadere l’isola. La frase del presidente democratico è stata subito seguita dalle rassicurazioni dei portavoce della Casa Bianca e del dipartimento di Stato. Ufficialmente, cioè, non ci sarebbe nessuna intenzione a Washington di abbandonare la posizione ufficiale adottata dopo l’istituzione di relazioni diplomatiche con la Cina nel 1979, né di liquidare il suo corollario della cosiddetta “ambiguità strategica”.

Dopo il riavvicinamento alla Cina operato da Nixon, prevalentemente in funzione anti-sovietica, a livello ufficiale gli Stati Uniti avevano interrotto tutti i rapporti formali con Taipei, riconoscendo quello di Pechino come il governo legittimo di tutta la Cina, inclusa l’isola di Taiwan. Allo stesso tempo, concretamente i rapporti con le autorità di quest’ultima sono proseguiti, così come la vendita di armi. Per evitare il precipitare di una crisi attorno alle sorti dell’isola, il governo USA aveva deciso di mantenere il riserbo sulla questione dell’impegno militare a fianco di Taiwan in caso di guerra con Pechino.

Il principio della “ambiguità strategica” dovrebbe servire in primo luogo a scoraggiare un’invasione cinese, nonostante il riconoscimento formale della sovranità di Pechino su Taiwan, ma anche a dissuadere il governo di Taipei dal dichiarare unilateralmente l’indipendenza dalla madrepatria o dal prendere altre iniziative provocatorie. Negli ultimi anni, tuttavia, la cautela che aveva contrassegnato quasi sempre l’approccio americano è venuta meno e l’intensificazione, spesso ostentata in modo deliberato, dei rapporti con Taiwan ha determinato, da una parte, una situazione di massima allerta a Pechino e, dall’altra, il rinvigorirsi delle aspirazioni indipendentiste a Taipei, soprattutto negli ambienti del Partito Progressista Democratico al governo.

L’uscita di Biden a Tokyo è stata bollata in genere come una “gaffe”, immediatamente corretta dai membri del suo gabinetto. In realtà, si è trattato almeno della terza volta dal suo ingresso alla Casa Bianca che il presidente ha ammesso pubblicamente l’impegno americano a entrare in guerra contro la Cina per Taiwan. Le sue parole hanno avuto ancora più peso perché pronunciate a margine di un vertice del cosiddetto “Quad”, l’organo formato da USA, Giappone, India e Australia, promosso da Washington precisamente per coordinare i preparativi di una futura guerra contro la Cina.

Smentite a parte, il messaggio minaccioso è arrivato chiarissimo a Pechino. Mercoledì, infatti, i vertici dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese hanno annunciato la seconda esercitazione su vasta scala in un mese attorno all’isola di Taiwan, apertamente in risposta alla dichiarazione di Biden. Per non lasciare il minimo dubbio, il portavoce del ministero della Difesa cinese, colonnello Tan Kefei, ha spiegato che l’esercitazione “ha come obiettivo la collusione tra gli USA e i secessionisti di Taiwan”. Le manovre, secondo Tan, “sono necessarie per garantire la sovranità nazionale e l’integrità territoriale” della Cina. L’Esercito Popolare, quindi, “attende ordini per la battaglia e adotterà tutte le misure necessarie per sventare risolutamente le interferenze di forze esterne e i tentativi di secessione da parte di Taiwan”.

Un agguerrito articolo pubblicato martedì dalla testata cinese in lingua inglese Global Times ha evidenziato tutti i rischi che comportano le provocazioni americane, dal momento che quella di Taiwan è per Pechino una questione vitale. Le autorità cinesi non risparmiano parole per avvertire gli USA e i loro alleati che l’opzione militare verrà decisa senza esitazioni se dovessero esserci sviluppi che fanno anche solo presagire una dichiarazione di indipendenza. Gli autori dell’articolo del Global Times ricordano che le forze armate cinesi hanno ormai messo a punto piani efficaci per neutralizzare qualsiasi manovra favorita da Washington al fine di ostacolare la riunificazione dell’isola con la madrepatria.

Sempre nello stesso articolo viene citato l’esperto cinese di relazioni internazionali, Zhuo Hua, il quale mette in guardia dal replicare il “modello ucraino” a Taiwan, con una guerra per procura prolungata che coinvolga la Cina in un pantano simile a quello che, almeno in teoria, gli Stati Uniti stanno preparando per la Russia. La differenza, sostiene Zhuo, risiede principalmente nella posizione geografica di Taiwan che, essendo un’isola, non ha la possibilità di evitare l’accerchiamento e il blocco completo imposto dalle forze cinesi.

Anche parecchi analisti militari in Occidente sembrano concordare sul fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia orientale non sono in grado di impedire un’invasione cinese di Taiwan. L’obiettivo di Washington sembra essere però quello di provocare uno scontro armato che, grazie alla massiccia disponibilità di armi americane, consenta a Taipei di tenere impegnata la Cina in un conflitto protratto nel tempo. Al centro dei piani USA potrebbe in questo modo esserci la ben consolidata “strategia del caos”, cioè laddove non è possibile sconfiggere militarmente o sopraffare economicamente il proprio rivale, si punta a invischiarlo in una logorante guerra “asimmetrica”.

Il risultato, nella migliore delle ipotesi, è la destabilizzazione di un paese che, in condizioni normali, rappresenterebbe una seria minaccia agli interessi e alle aspirazioni egemoniche americane. Naturalmente, questa strategia richiede l’accompagnamento di una campagna propagandistica che presenti le operazioni USA come una battaglia per la difesa della democrazia – sia essa nella versione “neo-nazista” ucraina o taiwanese – contro l’aggressione dell’autoritarismo russo o cinese.

Invertendo quindi la realtà dei fatti, le responsabilità delle tensioni non vanno ricondotte alle provocazioni di Washington e Taipei, ma alla crescente minaccia di invasione cinese. Stando così le cose, politici e commentatori alimentano un finto dibattito sulla necessità di aumentare le forniture di armi a Taiwan. Un articolo di questa settimana del New York Times ha a questo proposito spiegato come esponenti del governo USA stiano facendo pressioni sulle autorità di Taipei per acquistare armi adatte a condurre una “guerra asimmetrica”, ovvero per combattere contro un esercito decisamente più potente e contrastare un’invasione dell’isola.

Gli Stati Uniti hanno a disposizione una serie di strumenti per attirare Pechino in un conflitto a Taiwan, com’è stato fatto con la Russia in Ucraina. Allo stesso modo, inoltre, sembra essere ben avviata una campagna mediatica per creare artificialmente un inevitabile scenario di guerra anche in Estremo oriente. Ciò che va sottolineato, tuttavia, è che il rischio di guerra a Taiwan non è aumentato a causa della crescente aggressività cinese, ma è dovuto piuttosto al dispiegarsi in modo sempre più esplicito dei piani bellici di Washington. In altri termini, come per il conflitto russo-ucraino, il precipitare della situazione anche nello stretto di Taiwan è alimentato non tanto dai diretti protagonisti della contesa – Pechino e Taipei – quanto dall’agenda e dalle mire provocatorie degli Stati Uniti.

In parallelo all’offensiva contro Mosca, quindi, il governo americano sembra essere sul punto di procedere anche contro la Cina. Se il raggiungimento degli obiettivi prefissati, in Asia come in Europa orientale, resta in fortissimo dubbio, quel che è certo è che, come minimo, a farne le spese saranno i civili taiwanesi, sacrificati senza troppi scrupoli agli interessi dell’impero, esattamente come sta accadendo alla popolazione ucraina.