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Nonostante un bilancio decisamente pesante in termini di morti, feriti e danni materiali, il rischio di un’escalation della violenza sembra essere per il momento rientrato in Iraq dopo l’umiliante passo indietro del leader sciita, Muqtada al-Sadr. Il tentativo del suo movimento populista-nazionalista di mettere le mani sulle leve del potere a Baghdad era iniziato dopo le elezioni dell’ottobre scorso, per poi proseguire con una serie di manovre che puntavano a marginalizzare le forze sciite rivali tradizionalmente legate all’Iran.

La situazione era precipitata nei giorni scorsi in seguito all’annuncio del “ritiro definitivo” dalla politica da parte di Sadr. La notizia era subito apparsa come un espediente per aumentare le pressioni sulle altre forze politiche, in modo da convincerle ad accettare sostanzialmente i termini di “riforma” del sistema ultra-settario iracheno desiderati da Sadr. I suoi sostenitori armati si erano così riversati nelle strade, sfondando la cosiddetta “Green Zone”, l’area fortificata della capitale che ospita gli edifici governativi e le ambasciate straniere.

 

Mentre la protesta sadrista si diffondeva anche nelle province meridionali del paese a maggioranza sciita, il governo centrale del premier Mustafa al-Kadhimi imponeva un coprifuoco e inviava le forze di sicurezza per cercare di ristabilire la calma. Alcuni edifici governativi sono stati occupati dagli uomini di Sadr e alla fine gli scontri armati registrati nei due giorni di scontri hanno lasciato una trentina di morti e quasi 400 feriti. Lunedì, Sadr aveva a sua volta alimentato le tensioni proclamando uno sciopero della fame fino a quando le forze dello stato non avessero rinunciato alla violenza.

Con la prospettiva di un bagno di sangue e una disfatta politica verosimilmente fatale, il 48enne religioso sciita il giorno successivo ha finito per allentare la presa. In una conferenza stampa nella città sacra all’Islam sciita di Najaf, Sadr si è scusato pubblicamente per il comportamento dei suoi sostenitori. Dissociandosi dalle violenze, ha poi intimato a questi ultimi di abbandonare la “Green Zone” entro un’ora.

La mossa di Muqtada al-Sadr non era motivata da particolari scrupoli per la popolazione sciita irachena, anche se il suo movimento rappresenta ufficialmente la parte più povera e storicamente emarginata di essa. Da sempre un politico pragmatico e calcolatore, Sadr ha dovuto riconoscere il fallimento della sua scommessa, lanciata di fatto in opposizione alla Repubblica Islamica e, secondo alcuni, con l’appoggio di potenze straniere, come forse l’Arabia Saudita o gli stessi Stati Uniti, i quali beneficiano come sempre del caos e della destabilizzazione di paesi al centro di contese strategiche.

A determinare l’improvviso ammorbidimento di Sadr è stato soprattutto l’intervento delle influenti autorità religiose sciite irachene, le cui prese di posizione erano in buona parte la ragione dell’invasione delle strade di Baghdad dei giorni scorsi. I problemi per Sadr erano iniziati a diventare seri settimana scorsa con la dichiarazione della cessazione del suo ruolo di autorità religiosa dell’83enne ayatollah Kadhim al-Haeri, considerato la guida spirituale del movimento sadrista. Haeri vantava stretti legami con il suo predecessore, il padre di Muqtada al-Sadr – Muhammad Sadiq – assassinato dal regime di Saddam Hussein nel 1999.

Nel suo discorso di commiato, Haeri metteva in dubbio le credenziali religiose di Muqtada e addirittura il diritto di successione al padre nel guidare il movimento dal quale prende il nome, per poi invitare i suoi seguaci a trasferire la loro fedeltà da quest’ultimo alla guida suprema dell’Iran, ayatollah Ali Khamenei, “la persona più valorosa e competente per guidare la nazione musulmana”. La decisione di Haeri ha avuto un effetto devastante sulle ambizioni politiche immediate di Sadr, saldandosi alle possibili manovre iraniane per orientare la crisi verso un esito favorevole a Teheran. A quel punto, il bluff di Sadr è stato scoperto e il ritiro dei propri uomini da Baghdad inevitabile per permettere al leader nazionalista sciita di riorganizzarsi e valutare le future possibilità di tornare a svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica irachena.

Se Sadr è una presenza costante e spesso decisiva nelle vicende dell’Iraq post-invasione USA, il successo del suo partito nel voto dell’autunno scorso lo aveva spinto a provare ad assestare una spallata decisiva al sistema per promuovere le sue ambizioni di potere. Con 73 seggi conquistati, i sadristi erano diventati il primo partito iracheno e il loro leader aveva proposto una soluzione che intendeva rompere con la consuetudine degli ultimi due decenni, formare cioè un governo “politico” con i più importanti movimenti sunniti e curdi, escludendo i rivali sciiti collegati all’Iran.

Il successo elettorale e la scalata al potere di Sadr erano favoriti da un programma politico populista e nazionalista basato sull’opposizione alle interferenze di qualsiasi potenza esterna. I partiti sciiti contrari a Sadr avevano però messo in campo manovre parlamentari e legali per impedire la formazione di un governo “politico” e la nomina del nuovo presidente dell’Iraq. Con una contromossa, Sadr a giugno aveva allora deciso le dimissioni in massa di tutti i parlamentari eletti nel suo movimento politico (Sairoon), nella speranza di convincere i rivali ad accettare un governo entro i termini da lui dettati per evitare disordini e scontri armati nelle piazze.

La revoca volontaria del mandato dei 73 deputati sadristi aveva consegnato i loro seggi alle formazioni sciite filo-iraniane che, approfittando dell’uscita di scena di Sadr, si erano accordate per nominare un loro candidato premier, Muhammad al-Sudani, ex ministro nel governo dell’arcirivale di Sadr, Nouri al-Maliki. Sadr aveva allora ordinato l’occupazione del parlamento da parte dei suoi sostenitori, al preciso scopo di ostacolare la nomina di Sudani e forzare un’elezione anticipata.

Il fallimento del progetto di Muqtada al-Sadr è da ricondurre anche al ruolo svolto dal suo movimento nelle proteste popolari che erano esplose nell’ottobre del 2019 contro il sistema corrotto e settario iracheno imposto da Washington. Sadr aveva inizialmente assecondato la rivolta cercando di rilanciarsi come oppositore dello status quo. Ben presto avrebbe tuttavia cambiato posizione, allineandosi alle altre forze politiche che appoggiarono la durissima repressione dello stato, risoltasi in oltre 600 morti.

Questi precedenti, oltre alla storia politica e religiosa di Sadr, fanno del leader sciita un elemento tutt’altro che anti-sistema e quindi difficilmente in grado di raccogliere il vastissimo malcontento diffuso in un paese in profondissima crisi nonostante resti il secondo produttore di petrolio tra quelli dell’OPEC. Nel corso degli anni seguiti all’invasione USA, la cui occupazione Sadr aveva combattuto strenuamente, il suo movimento ha d’altra parte piazzato moltissimi referenti all’interno delle strutture dello stato, nell’industria estrattiva e nelle amministrazioni locali. Allo stesso tempo, Sadr si è scontrato con una realtà per ora impossibile da superare, nella quale hanno prevalso gli organi dello stato e il resto della comunità sciita, ben intenzionati a perpetuare un sistema di interessi estremamente lucroso.

La crisi irachena e lo stallo politico non sembrano in ogni caso avere una facile soluzione nemmeno dopo i fatti di questi giorni. Dopo quasi un anno dal voto non si è ancora insediato un nuovo governo, né è stato eletto in parlamento il nuovo presidente. Sarà tutto da verificare anche il ruolo che svolgeranno i sadristi nell’immediato futuro, se scenderanno a compromessi con gli altri partiti e se torneranno a occupare i seggi in parlamento a cui avevano rinunciato su ordine del loro leader.

In ultima analisi, il caos politico in Iraq dipende soprattutto dal mancato accordo circa il nuovo assetto governativo tra le due potenze con la maggiore influenza sul paese: Stati Uniti e Iran. Entrambi i paesi sono stati apparentemente alla finestra nell’ultimo periodo, ma entrambi, e soprattutto la Repubblica Islamica, hanno argomenti convincenti per orientare le decisioni della classe politica irachena. Le sorti del governo di Baghdad potrebbero così sbloccarsi anche in conseguenza di eventuali sviluppi diplomatici positivi provenienti sia dalle trattative di Vienna sul ripristino dell’accordo per il nucleare iraniano (JCPOA) sia dai colloqui in corso a singhiozzo tra la Repubblica Islamica e l’Arabia Saudita.